Arie di primavera nel paese contadino

16.04.2022 10:35

Su l'Adige di oggi è pubblicata, con partenza in prima pagina, una mia memoria del paese della mia infanzia in primavera. Riporto di seguito il testo integrale:

 

Arie di primavera nel paese contadino

 

Tra i ricordi della mia infanzia, vissuta in un borgo interamente agricolo di duemila abitanti, quelli collegati ai primi giorni della primavera sono carichi di vita nuova e nostalgie. Il paese si svegliava dai torpori dell’inverno. Dalla campagna saliva un’aria fresca e buona che inondava le strade e cacciava via l’intenso odore di stalla che, ristagnando per mesi, si era attaccato ai muri delle case e aveva penetrato i vestiti. Erano le brezze profumate che mandavano i prati appena erpicati e le zolle rivoltate dei campi.

L’avvicinarsi del cambio di stagione era stato segnato dal canto del «Trato marso» (È entrato marzo), quando, dal dosso sopra il paese, un gruppo di giovani audaci aveva rivelato ai quattro venti la nascita di un amore ancora clandestino o aveva accoppiato per burla due giovani che non riuscivano a trovare partito. La declamazione obbediva a un copione fisso, in cui l’annuncio di due solisti era seguito dal coro. Ricordo ancora quando i temerari unirono un «püt» (celibe) attempato e sprovveduto alla giovane più bella e giudiziosa della contrada.

A metà marzo le nonne riportavano a casa la «róca» (conocchia) dalla stalla in cui alla sera avevano fatto «felò» per quattro mesi; i ragazzi riponevano le slitte in un angolo del cortile; il contadino si affrettava a ultimare l’approvvigionamento di foraggio e legna per l’inverno successivo per passare poi alla concimazione di prati e campi. Il letame era trasportato col carro dotato di un cestone intessuto con fusti di orno, di grandezza diversa a seconda dell’animale che era alle stanghe. Di lì a qualche giorno, dopo la prima pioggia, i prati erano lavorati con l’«arpäs» (erpice) e i residui dell’ingrasso erano raccolti e depositati nella «gentelina», l’angolo della stalla destinato alla riserva di strame per la lettiera degli animali.

I campi erano concimati dopo i prati, prima della vangatura o aratura, operazioni nelle quali si assisteva a tanto mutuo aiuto. I vicini di casa vangavano il campo della famiglia che doveva assistere dei malati. Si scambiavano prestazioni lavorative soprattutto con gli artigiani: il lavoro del calzolaio o del falegname era ricompensato con uno di corrispondente valore nella loro campagna. Era un sistema che in dialetto era detto «ncontrar tèr» (venirsi incontro); assieme a tanti altri espedienti aveva creato un fertile humus per la nascita e il radicamento della cooperazione.

A metà aprile le mucche erano fatte uscire dalla stalla e portate a pascolare sul terreno comunale lungo l’argine del fiume, anche per «fare un po’ la gamba» prima di farle salire ai fienili di mezza montagna, dove l’apertura del pascolo era tradizionalmente segnato dalla ricorrenza del patrono del paese, san Floriano (4 maggio). Solamente un mese dopo erano condotte nelle malghe. Ogni anno erano monticati 700 bovini.

Da Pasqua in poi le vie della campagna riprendevano a popolarsi: uomini, donne e ragazzi, la maggior parte a piedi, qualcuno bicicletta, carri e carretti con cavalli, muli e asini (ce n’erano un centinaio in paese), alcuni irrequieti (col «morbì»), perché avevano dimenticato l’effetto dell’aria frizzante. Quando rientravano all’imbrunire si sentiva ancora la musica dei «chioaröi» (chiodaioli) che dalle stelle alle stelle lavoravano in alcune piccole fucine situate ai bordi del paese. Piegati sull’incudine, le mani incallite e spesso sanguinanti, fabbricavano «bròche» (bullette) da fissare a scarponi e «sgàlbar» (scarpa grossolana con tomaia in cuoio e pianta di legno); quelle «a gamba curta» erano applicate sotto la pianta, quelle «da sapa» alle punte. In una fucina c’erano uno o più fuochi, alimentati dalla «forgia» (ventilatore), e attorno ad ognuno lavoravano da quattro a sei chiodaioli. In una giornata un operaio di media bravura fabbricava 1.200 «bròche», 35mila colpi di martello, ora energici ora più leggeri, ma continui, ininterrotti, al ritmo di 80-100 al minuto.

Ultimata la mungitura delle mucche, la famiglia consumava unita la cena con le immancabili «foài» (tagliatelle fatte in casa), due patate e formaggio. Subito dopo ragazzi e ragazze si rincorrevano per le strade e nei cortili giocando al «gatù» (nascondino), dimentichi della sentenza della nonna contro le compagnie promiscue: «Tus e tuse ghiàol an mès» (quando ragazzi e ragazze sono assieme, in mezzo c’è il diavolo). Ma i maschi più grandicelli non ci stavano a fare il gioco di sempre e di tutti: finché «gh’era la lüce dal Segnór» (in quegli anni lontani le strade erano illuminate da poche lampadine da 40 candele protette da piatti scrostati e arrugginiti) si divertivano tra loro col «giöc dal balù» (pallamano). La «bala» era fatta con la vescica del maiale ucciso qualche giorno prima, gonfiata e avvolta nello spago, mantenuta bagnata in un secchio d’acqua.

Dal primo di maggio la vita del paese era movimentata dai due caprai col loro gregge di quasi mille capi. Di buon mattino uno di loro raccoglieva le bestie nella «piàsa de cavre», l’altro percorreva il paese suonando il corno e raccogliendo gli animali che i proprietari gli affidavano. Concluso il tragitto, il gregge si componeva e prendeva, alternandole, una delle tre direzioni verso la montagna.

Ogni capra portava al collo una «càneva» (collare) alla quale era spesso attaccato un campanellino. Sui collari in legno di solito era stampato a fuoco il marchio della famiglia con le iniziali di nome e cognome del padre. Al tramonto, la capra birichina, che ancora non conosceva o non voleva ricordare la via di casa, doveva essere prelevata all’ingresso dell’abitato. Altrimenti bisognava rassegnarsi e andare a cercarla. È, questo, uno dei ricordi meno belli della mia infanzia: le nostre capre non tornavano a casa da sole, per cui una volta ho scritto nella letterina a santa Lucia: «Cara santa Lösìa, pòrtame na cavra che vègna a cä da sula».

Sono passati settant’anni. Questo paese è tramontato: sono scomparse dall’abitato le mucche, le capre, gli asini e i carri col letame. Non ci sono più i chiodaioli con le mani sanguinanti. I ragazzi, la sera, non giocano più nelle strade. È cambiato un mondo, ma è rimasto il bisogno di venirsi incontro.