Emigrazione a Venezia

27.12.2021 10:42

È uscita "Strenna trentina 2022". Alle pp. 168-169 pubblica il mio articolo Il pastore lo straccivendolo e il campanaro. Tre secoli di emigrazione di Storo verso Venezia, che riporto di seguito:

Il 6 settembre 2020, Rai2 ha trasmesso un documentario sulla Regata storica di Venezia, un’importante manifestazione sportiva lungo il Canal Grande, collegata ad una rievocazione storica. Verso la metà del servizio, mentre si parlava di come la Repubblica si difendeva da stranieri che potevano introdurre epidemie nelle sue terre, è stata proiettata l’immagine di un documento compilato a Storo il 14 marzo 1739 e finito negli archivi veneti. È il permesso rilasciato dai “deputati alla sanità del Borgo” a “Bortolo Poletti di detto Storro, di anni 35, pelo e barba castagni”, il quale intende lasciare il suo paese che è “libero d’ogni sospeto di mal contaggioso per andar al Caffaro conducendo ivi pecore n. 200 circa per spedirle nel Stato Veneziano à soliti pascoli”.

I rapporti commerciali con la Pianura Padana e le terre della Serenissima Repubblica di San Marco non furono solo una questione di mandrie e pastori che salivano agli alpeggi trentini o scendevano ai pascoli della pianura, un “va e vieni” per il quale le comunità della Valle del Chiese, appartenenti al Principato Vescovile di Trento, godevano fin dal 1488 del privilegio veneziano del libero importo di granaglie, dell’esenzione dai dazi per le mandrie e del lasciapassare per i pastori.

L’emigrazione degli storesi verso la Laguna cominciò nei primi anni del Cinquecento, quando in paese ci fu un notevole aumento della popolazione. Rallentò durante la guerra del 1508-16 tra Venezia e l’imperatore, perché al conflitto si accompagnarono epidemie. Molti emigranti rientrarono, desiderando restare “in patria”, dove da anni non c’era alcuna epidemia (“in ipsa terra Setauri non regnavit aliquis epidemiae morbus”). Per sfamare tutte le bocche, la comunità chiese allora al vescovo di poter spartire tra le famiglie una parte del territorio comunale.

Appena però Venezia non fu più al centro della guerra, il flusso migratorio riprese. Laggiù, col sudato lavoro e un po’ di abilità - si legge ancora nel documento di spartizione del 1514 - si guadagnava benissimo (“propriis laboribus sudoribusque suis ac industria superlucrabantur”), così che si poteva mandare alle famiglie il denaro per comperare frumento e quanto necessario per vivere (“eorum familias substentabant de bladis, pecuniis et aliis rebus sibi necessariis”).

Si trattò per lo più di emigrazione temporanea, ma qualcuno pensò di sistemarsi definitivamente a Venezia e perciò vendette ai compaesani le proprietà che possedeva in paese.

Sulle professioni di questi emigranti in Laguna ci dà qualche notizia un documento di compravendita del 1554, nel quale compaiono un Matteo che è detto “petinario” (tessitore di canapa o lino), un Martino venditore di corde (“venditore cordarum”), un Bartolomeo che lavorava a Campo San Bartolomeo, un Antonio Aldi che faceva il cenciaiolo al ponte di Rialto (“Petrus de Aldis de Astor, strazzarolus in Rialto”). Lavori umili, ai quali dobbiamo sicuramente aggiungere quelli degli scaricatori di porto (“bastasi”) e degli operai impiegati nell’arsenale come segantini.

Qualche emigrante storese fece fortuna. Nel 1668 Martino Cuoghi assegnò nel suo testamento, dettato a Storo, ingenti somme di denaro che aveva guadagnato coll’esercizio della sua bottega a Venezia (“ex capitali sive societate mercatoriae Venetiis”). L’anno dopo lo stesso Cuoghi, donò una pregevole tela di scuola veneta alla chiesa del paese natale assieme ad altri cinque compaesani emigranti, tra i quali figura un “Antonio Poli Campaner”, cioè fonditore di campane, delle quali c’era a Storo un’officina di fusione. È probabilmente il nonno dell’omonimo “campanaro in Venezia” che è riportato sulla tela dell’altare della cappella privata del palazzo storese al Dòs (“Antonio de Poli - ... fonditor de campane fece fare 1726”).

Gli storesi trasferiti per lavoro a Venezia sono definiti “boni confratelli” e “buoni patrioti”. Formavano una confraternita che faceva capo ad un capitello della Beata Vergine da loro eretto “sopra la Cale Galeaza a San Bartolomio” (vicino al Ponte di Rialto). Nella festa di Pentecoste tenevano il capitolo generale ed eleggevano un cassiere e tre massari, i quali dovevano raccogliere le “limosine” che servivano all’acquisto di tele di buona scuola veneziana e argerterie per la chiesa del paese natale.

Nell’Archivio parrocchiale di Storo è conservato un grosso registro che riporta gli elenchi degli emigranti e documenta le iniziative assunte dalla confraternita dal 1643 al 1786. Le decisioni erano prese con votazione mediante “balle” di colore diverso, a maggioranza di voti, esattamente come avveniva nella comunità d’origine. Si può stimare che mediamente ogni anno furono presenti a Venezia circa 70 uomini di Storo; le donne riportate nel registro sono 84, distribuite in vari anni, ma nessuna di loro ebbe incarichi.