I carbonai di Bondone

04.07.2017 11:35

Li ricordo in occasione della morte del loro parroco, don Mansueto Bolognani, il prete dei carbonai. (articolo pubblicato su L'Adige del 4 luglio 2017)

Lo scorso 29 giugno è stato sepolto nella nativa Vigo Cavedine don Mansueto Bolognani, 88 anni, conosciuto in Valle del Chiese come «il prete dei carbonai». Era arrivato da queste parti nell’autunno del 1959, nominato parroco di Bondone, dove rimase sei anni.

L’antico paese di Bondone è collocato su un pianoro di mezza montagna ed è il più meridionale delle Giudicarie, l’ultima propaggine verso la provincia di Brescia. La parrocchia, come l’amministrazione comunale, comprendeva, allora come adesso, anche il paese di Baitoni, sorto più di recente nella piana che scende ai canneti della sponda settentrionale del lago d’Idro, alle foci del fiume Chiese.

Bondone era un paese che aveva lasciato correre il tempo. Le sue cento case erano addossate le une alle altre, come avessero il bisogno di stringersi per scaldarsi assieme o la paura di scivolare in acqua. Le strade erano lastricate da selciati medioevali e strettissime, i muri gibbosi, ornati qua e là da dipinti di una devozione arcaica, tra i quali quello del re che inutilmente offre alla morte oro e argento e le chiede: «Lassami la vita ancor godere».

Sessant’anni fa, quando don Mansueto vi arrivò dopo aver fatto per quattro anni il cappellano a Moena, la popolazione era più numerosa di oggi ed era diversa. Era formata esclusivamente da ruvidi carbonai, viveva otto mesi all’anno in montagna a fare carbone e quattro mesi in paese a “bruciare” i soldi guadagnati nei boschi. Erano già in pieno svolgimento i «grandi lavori» per la costruzione delle dighe e centrali idroelettriche sul Chiese, che segnarono per la valle il passaggio dalla società contadina a quella industriale e dei servizi, ma le sirene della modernità non erano ancora giunte alle orecchie dei carbonai.

Ai primi di aprile le famiglie si sparpagliavano nel Trentino o nella vicina Bresciana, ovunque ci fosse del bosco ceduo da tagliare. «Gli adulti - scrisse il farmacista-scrittore Nino Scaglia, testimone oculare di tante partenze dei suoi amici di caccia - si caricavano in spalla i ferri del mestiere, le coperte e gli utensili necessari per cucinare, le donne si mettevano sulla schiena uno zaino pieno di farina, e a cavalcioni sullo zaino l’ultimo nato dei sempre numerosi figlioli e via tutti in fila indiana, ultimi i ragazzi più grandi che si tiravano dietro un paio di caprette e spesso un maialino da ingrasso».

Il paese si svuotava. Le famiglie, dopo uno o due giorni di marcia, raggiungevano le montagne della Rendena o del Bleggio, di Ledro, della Paganella, dello Stivo e dei Lessini. Li accoglieva una baita di frasche costruita in poche ore accanto alla «aiól», una radura dove sarebbe sorto l’altare pagano del «poiót», la carbonaia.

Il lavoro più faticoso stava nel tagliare la legna, portarla all’«aiól» e ridurla a misura giusta. In mezzo alla piazzola veniva piantato un grosso palo, alto più di due metri, attorno al quale si costruiva il «castél», formato da legnetti posti per lungo e di traverso a due a due, in modo che formassero un foro lungo quanto il palo. Attraverso questo foro, una volta terminata la carbonaia e tolto il palo, sarebbe stato introdotto il fuoco.

La legna era disposta verticalmente tutt’intorno al palo maestro, prima la più grossa e poi la più sottile, e ricoperta alla fine da uno strato di foglie, frasche e terra, in modo che non entrasse aria e potesse cuocere senza fiamma e trasformarsi in carbone. Era un’arte quella di saper dominare il fuoco, strozzarlo, buttandogli addosso ancora strame e terra. Erano gli otto mesi delle tre effe: Fumo, Freddo, Fame.

Il rientro dalle montagne avveniva - sempre in fila indiana - per la festa dei Morti: davanti gli uomini con il volto bruciato dal sole e dalle braci, poi le donne con il penultimo bambino per mano e l’ultimo, partorito in montagna, nello zaino, infine i ragazzi, le caprette e il maiale. Deposto il suo carico, la mamma andava in chiesa a offrire un mazzolino di fiori di montagna alla «Madòna col Bambì n brós” (Madonna col Bambino in braccio).

Qualcuno però a Bondone non rientrò più. Alcuni uomini morirono sul lavoro e vennero sepolti nel paese più vicino, dove talvolta la vedova si sistemò definitivamente coi figli, vivendo spaesata e sradicata dalla sua gente.

Ho rivisto nel cimitero di Avio, dove i morti riposano all’ombra del campanile della vecchia Pieve, la tomba della famiglia Scalmazzi. Ho riletto i dieci nomi riportati sulla lapide e mi sono ricordato della vecchia Lucia di Bondone (gli aviensi la chiamavano «Lùzia Carbonèra»). Aveva seguito il marito Enrico sul Baldo, dove l’uomo morì ancora giovane. Lùzia rimase ad Avio e, fin che ebbe voce, continuò a parlare il suo dialetto, che di trentino aveva poco: vi abbondavano i suoni delle ó chiuse e la gente non la capiva, così che un po’ alla volta si trovò emarginata.

Il giovane parroco don Mansueto prese atto che da aprile a novembre il paese rimaneva spopolato, abitato solo da novantenni e invalidi. Prese allora la sua utilitaria, si dotò di robusti scarponi e di uno zaino (in cui non mancava mai un sacchetto di caramelle per i bambini), si mise a tracolla la macchina fotografica, e andò a cercare sulle montagne i corpi e le anime dei suoi parrocchiani. Voleva portare un conforto religioso e tenere annodati i fili della comunità. Nell’ultimo tratto della salita, quando il sentiero si perdeva nel bosco, si lasciava guidare dal profumo della carbonaia.

Durante quelle gradite visite don Bolognani scattò quasi 200 fotografie che - assieme alla raccolta di Flavio Faganello custodita nell’Archivio Fotografico Storico della Provincia - rappresentano oggi una documentazione preziosa della vita e dell’attività dei «carbunèr», sopravvissuta ormai solo come momento folcloristico. Come accade, ad esempio, nella «Festa del carbonaio» che ogni estate (quest’anno sarà domenica 30 luglio) la gente di Bondone tiene a malga Alpo, a monte del paese. Questa volta un ricordo particolare sarà dedicato a don Mansueto, l’ultimo prete dei carbonai.