I mestieri scomparsi della società contadina
Da qualche mese scrivo per l'Adige articoli che riprendono atmosfere della società contadina della mia infanzia. Oggi è pubblicato questo contributo:
La nostra storia
I mestieri scomparsi della società contadina
Sono spariti moltissimi lavori della società contadina della mia infanzia, vissuta in un paese interamente agricolo. Erano caratterizzati dall’essere svolti in ambito domestico, facendo affidamento sulla cooperazione di tutti i familiari e dei vicini della contrada. Due tra tutti: l’allevamento del baco da seta e la coltivazione della canapa.
Per l’allevamento delle «cavalére», durato fino al 1947, erano indispensabili un locale areato, asciutto e pulito, la legna per riscaldarlo (la temperatura non doveva scendere sotto i dieci gradi) e «fòie de morù» (foglie di gelso) in abbondanza. Le operazioni iniziavano in primavera con una pulizia profonda dei locali, l’imbiancatura delle pareti, la disinfezione degli attrezzi da lavoro e del pavimento.
Nello stanzone venivano sistemati alcuni «arelì» (graticci), collocati su più piani orizzontali, sui quali erano posti i bachi appena uscivano dalle «somèse» (uova), covate per otto giorni nel letto di una persona anziana. Barbarì «a tegnéa n calda le somèse per tüta la contrà» (teneva calde le uova per l’intera contrada), e così - all’inizio della cova - ogni anno raccomandava al marito: «Lorensì, adès mégna dropar al có ndé cal lét, ché adès gh’é tèr le cavalére» (Caro il mio Lorenzo, adesso usa la testa quando ti muovi nel letto, perché ci sono le uova dei bachi).
Le larve erano nutrite con foglie di gelso tagliuzzate in pezzi sempre più grandi a seconda del loro sviluppo, che durava circa quaranta giorni, durante i quali le «cavalére» cambiavano quattro volte la pelle. Nel giorno della «müda» dormivano, ma poi riprendevano a mangiare sempre più voracemente. Il periodo che seguiva la terza «müda» era detto semplicemente «magnarìa», che cadeva solitamente negli ultimi giorni di giugno. L’organizzazione dei lavori della campagna permetteva di destinare ai bachi una settimana a tempo pieno di tutti i membri della famiglia. Le foglie dovevano essere sempre asciutte, per cui, se il tempo era piovoso, il lavoro aumentava perché si doveva farle asciugare stendendole «nda l’èra» o «ndal màstac» (nell’aia o nel locale multiuso al primo piano della casa contadina). Nello stanzone dove stavano i bachi si diffondeva un sottofondo di rumorini formato dall’intermittente brucare: «al paréa che i parläs!» (sembrava che parlassero!).
Una giovane sposa incinta confidò alla mamma di avvertire le prime doglie. Si sentì rispondere: «Se te ghe reväste a trar amò na stamàna anfìn che le cavalére i vé giü da magnarìa, al sarìa n bèl mestér!” (Sarebbe bella cosa se tu riuscissi a tirare avanti ancora una settimana, finché i bachi concludono il periodo della «magnarìa»).
Intanto si preparava il «bósc», fatto di fitti ramoscelli secchi di «bòrc» (erica arborea), su cui le larve poi salivano, si attaccavano con la bava, dormivano tre-quattro giorni, coperte da un lenzuolo di canapa, e formavano la «galäta» (bozzolo). Quando il bozzolo era duro e, sbattendolo, si sentiva il rumore del «bogàt» (crisalide) che urtava contro le pareti interne, significava che era maturo. Le «galäte» erano allora raccolte, riposte in cesti e vendute alla «botéga» (Famiglia Cooperativa; quando io ero piccolo, in paese non funzionavano più le filande che nell’Ottocento avevano fatto la fortuna di alcune famiglie). Il giorno della vendita era festa grande: le donne indossavano il vestito più bello e mettevano il fazzoletto al collo; si permettevano anche un «cafè cól sìnsio» (caffè con liquore d’anice).
Settant’anni fa, quasi tutte le famiglie del mio paese coltivavano la canapa. Non si seminava un campo intero, ma solamente un pezzetto di terra, di solito alla testa di un fondo a frumento o segale, per uso familiare.
In agosto (per tradizione nel pomeriggio della festa di s. Lorenzo) le piante venivano strappate con le mani. I fusti, muniti di radici, erano raccolti in covoni, legati usando il «marciät» (piantine scadenti). Sul bordo del campo erano lasciate alcune piante («canevrina») destinate a produrre i semi per l’anno successivo. Nel terreno lasciato libero venivano seminate le rape.
I covoni erano esposti a seccare lungo i muri delle case, poi erano sistemati per 20 giorni in pozze d’acqua corrente a macerare. Dopo di che erano di nuovo stesi al sole, quindi si battevano col rovescio del «flocàc» (pesante roncola) sul «ciòc dä smasolar» (ciocco per la battitura) rompendo e staccando il «raschiér» (parte legnosa). L’operazione era completata alla gràmola, con la quale la parte legnosa rimasta era ulteriormente sminuzzata e separata dai fili, i quali erano trattati poi con una doppia pettinatura con lo scardasso («spenàc gròs e fino») in modo da separare i cascami della stoppa.
Nel corso dell’inverno successivo, i fili ben allineati erano avvolti alla rócca e fissati con la «coragiöla» (correggia), a sua volta bloccata dal «boroncì» (spillone di legno), che era un regalo molto frequente del fidanzato alla fidanzata. L’asta della rócca si fissava in basso infilandola nella «bögaröla» (grembiule) ed a metà altezza tramite il «branér» (spallaccio). Per trasformare la canapa in filo, la filatrice la bagnava con la saliva, tirandola leggermente e attorcigliandola sul fuso. Per stimolare la salivazione succhiava «cornài säche» (frutti secchi del corniolo) o «móndoi» (castagne secche).
Il filato veniva tolto dal fuso per mezzo del «cegàgn» (aspo) e si formavano le «ace» (matasse), che erano fatte bollire con la cenere e quindi lavate per rendere più bianco il prodotto. Erano poi passate al «guìndal» (arcolaio) per ottenerne i gomitoli che venivano portati al tessitore.
In estate era incombenza riservata ai ragazzi bagnare le lunghe strisce di tela al torrente. Le stendevano sul greto e, appena erano asciutte, tornavano a bagnarle, anche cinque volte in un pomeriggio di sole, così che nel giro di un mese la tela diventava bella bianca. Negli intervalli tra una bagnata e l’altra, cercavano i «bòcioi» (scazzoni) che si nascondevano sotto i sassi dove l’acqua era più bassa.