I riti della malga alpina
L'Adige di oggi pubblica, con partenza in prima pagina, il mio articolo in cui ricordo i "riti" della antiche malghe e pongo il problema dell'identità alpina e della sopravvivenza della cooperazione. Di seguito il testo integrale dell'articlo:
Identità
I riti della malga alpina
«Settembre, andiamo. È tempo di migrare». L’invito di D’Annunzio ai pastori d’Abruzzo valeva anche per i malgari delle Alpi. Dopo tre mesi di alpeggio, le bestie erano riportate a valle. Ed era una festa.
Il carico della malga avveniva individualmente nei primi giorni di giugno: ogni proprietario conduceva le sue mucche e le consegnava al «prim vachièr»; poi si fermava a prestare due ore di lavoro per ogni capo, sistemando sentieri, approntando ripari e staccionate e ripulendo il pascolo da cespugli infestanti e dalle «burse de vache», il veratro bianco, un’invasiva pianta erbacea velenosa.
Lo scarico - «descargar la malga» - era invece gestito direttamente dai malgari che conducevano a valle tutte le bestie assieme: al suono dei campanacci si univa quello del battito delle «sächie» (le secchie con doghe di legno usate nella mungitura). Ma non tutte le mucche tornavano in paese: nel corso della discesa, alcune erano prelevate dalla mandria e restavano qualche settimana nei fienili di mezza montagna.
Le malghe delle Alpi sono state una chiara espressione di quell’identità alpina che Marco Zulberti ha richiamato su questo giornale lo scorso 25 agosto e che è spesso sottolineata dall’antropologo Annibale Salsa. Sono state un’espressione forse prioritaria rispetto alla lingua stessa, che non era né italiana né tedesca: c’erano dialetti che cambiavano suoni a ogni giro di valle, ma avevano uno spartito di base comune.
Settant’anni fa al mio paese si monticavano tre malghe per le bestie da latte: circa 600 capi. Oggi dall’abitato sono scomparse le mucche, le capre, gli asini e i carri carichi di fieno o letame; chi vuol vedere le bestie deve entrare nelle poche grandi stalle della campagna. Sono rimaste vuote anche molte malghe e più nessuno in primavera e autunno fa pascolare le mucche nelle radure di mezza montagna.
Quando si avvicinava la stagione dell’alpeggio, il presidente della «Società da l’Èrba» (di cui erano membri, per diritto e dovere, tutti i proprietari di bestiame: un bell’esempio di solidarietà e cooperazione, assieme a molte altre collaborazioni della società contadina) convocava tante «compägne» (assemblee) quante erano le malghe da caricare. L’avviso della riunione era comunicato con voce stentorea dal messo comunale che girava il paese a «far la cria». La «compägna» nominava il «màcaf», cioè il responsabile generale della malga, il quale a sua volta si sceglieva una persona di fiducia e disponibile perché lo aiutasse nella contabilità («canselér»).
Durante la «compägna» si procedeva a due aste al ribasso («encànt») per scegliere chi settimanalmente avrebbe portato in paese il burro e chi avrebbe portato in malga l’attrezzatura necessaria prima della monticazione, riportandola poi a valle a fine stagione, per usarla nei caseifici turnari. Si trattava di un piccolo patrimonio comunitario: «caldéra, mastèle, fasère e smasaröla» - grande paiolo usato per far cagliare il latte, recipienti a doghe di legno o di latta per depositarlo e farlo maturare, forme di legno per il formaggio, attrezzo per trarre il burro dalla panna.
Poi i due responsabili passavano a contattare il personale necessario per la stagione accordandosi sul salario («ncordar i òm»). Nella malga c’erano due settori, ognuno con una precisa gerarchia. Alle dipendenze del «prim vachièr», responsabile della mandria, c’erano il «secónt» e il «tèrs»; l’ultimo della gerarchia, di solito un ragazzo, era il «paracùa» o «caciacùa». Il casaro, aiutato da un garzone («scòchia» o «scotù»), era invece il responsabile della lavorazione del latte e del formaggio (depositati nel «sìltar»), ma anche del vitto degli altri malgari: polenta (anche due volte al giorno) e riso cotto nel latte. Un boccone prelibato era la «polènta col «cocepì» (ritagli di formaggio - «serónc» - fritti in burro e panna), più dozzinale il «cociöl», consistente in una palla di polenta con dentro formaggio fresco abbrustolito alle brace.
Dopo ogni mungitura si faceva il controllo delle mucche per verificare che fossero tutte presso la malga e fossero state munte. Il «prim» chiamava uno per uno i proprietari usando coloriti soprannomi: «üna mi» (ne ho munta una io) affermava il pastore che ne aveva munta una; «üna a mi» (ne ho munta una anch’io) gridava un altro; «muns» (mungitura completata) concludeva il «prim» che pure ne aveva munto una e sapeva che il conto tornava perché il contadino in questione aveva monticato tre bestie. Se al controllo mancava qualche mucca, toccava al «caciacùa» andarla a cercare. Prima di partire per il pascolo, il «prim», appoggiato al suo bastone con atteggiamento tra lo stanco costante e il solenne di circostanza, intonava alcune preghiere in latino che i colleghi accompagnavano biascicando più spropositi che invocazioni.
Per calcolare il latte prodotto da ogni mucca c’erano le «pése», per effettuare le quali il «canselér» e il «màcaf» salivano in malga dopo i primi otto giorni di alpeggio e poi a intervalli di quindici giorni. La sera precedente il giorno del controllo le mucche erano «regolate», cioè munte in un certo ordine che andava rispettato nelle due successive mungiture, una la sera e una la mattina. Con questi dati a fine stagione si calcolava per ogni mucca la resa complessiva comparando latte dato e spesa. Se la bestia aveva chiuso in attivo, il proprietario prelevava formaggio e burro corrispondenti al suo credito.
Ogni due-tre giorni, uno dei proprietari era incaricato di salire (a piedi naturalmente) in malga con l’«entral», cioè l’occorrente in vitto per i malgari e in sale («sal róssa») per le mucche. In questo modo venivano assicurati un regolare rifornimento e un collegamento col paese. L’ultimo giorno dell’alpeggio, malgari, «màcaf» e «canselér» festeggiavano la partenza con la «polènta carbonèra».
Oggi dei riti della malga c’è qualche studiata «desmontegada» folcloristica, ma restano due interrogativi: che effetti avrà sulla conservazione dell’identità alpina la scomparsa della struttura economica agricola, fatta da piccoli proprietari? Fino a quando gli enti cooperativi, nati in reazione alle condizioni di fame, miseria e usura che caratterizzavano la società a cavallo tra Ottocento e Novecento, riusciranno a mantenere la loro vocazione originaria se manca l’humus dei comportamenti di mutuo soccorso che ne hanno favorito la nascita e lo sviluppo?