La grande famiglia della vecchia contrada

11.02.2022 10:24

L'Adige di oggi pubblica, con partenza in prima pagina, l'articolo in cui ricordo la vecchia contrada di Proäs in cui ho vissuto la mia infanzia. Nostalgia dell'infanzia? Nostalgia di una prossimità solidale? Con il tramonto della società contadina se ne sono andati anche alcuni valori importanti.

La storia

La grande famiglia

della vecchia contrada

Ho vissuto l’infanzia nella contrada di paese di Proäs. Era un groppo di case addossate una all’altra, una famiglia allargata. Vi vivevano quasi 200 persone in 40 famiglie. Conoscevo tutti, anche gli anziani, ai quali davo del voi, e questi conoscevano me e mi rivolgevano la parola. Al posto del cognome usavamo con disinvoltura i soprannomi dialettali: erano antichi e non avevano nulla di offensivo.

Ricordo di essere entrato in tutte le abitazioni. Quando in casa c’era qualcuno, l’uscio non era mai chiuso a chiave. Non c’erano campanelli alle porte. Se arrivavi in cucina mentre stavano mangiando, era immancabile l’invito: “An comàndet a ti?” (desideri mangiare qualcosa anche tu?). La mia soffitta era comunicante con quella delle due famiglie a fianco, per cui andavo da loro senza passare per la strada.

La via che veniva dalla campagna era in salita. Asini e muli faticavano a tirarsi dietro il carico di foraggio, prodotti di stagione e legna. Dove la via cominciava a farsi erta, i vicini accorrevano a spingere il carro. Ci si aiutava a vicenda anche quando c’era da tirare sul solaio il foraggio, battere il frumento e la segale, scartocciare il granoturco, fare la «lesiva» a Pasqua e ai Santi, mettere a macerare la canapa, scaricare la legna per l’inverno, raccogliere il latte. Quello delle mucche era lavorato nei tre caseifici turnari del paese, mentre il latte delle capre che eccedeva il consumo domestico era unito a quello delle famiglie della contrada ed era lavorato a turno, ricalcolando debiti e crediti. Si usava una bilancia che aveva come unità di peso la lira.

La povera cucina di allora aveva come piatto base i fagioli, però non c’erano congelatori per conservarli né pentole a pressione per abbreviarne il tempo di cottura. Si conservavano secchi in luogo asciutto, ma, quando si cuocevano, la pentola borbottava sul fuoco per tre ore. Le mamme poi ne passavano una scodella alle vicine che qualche giorno dopo restituivano la cortesia. C’era un vai e vieni tra famiglie anche quando si uccideva il maiale, soprattutto se la stagione era aperta e le parti che non andavano negli insaccati si deterioravano più in fretta.

Nelle sere invernali si riuniva nella stalla della mia nonna una trentina di persone per il «felò». Era un importante momento per incontrarsi, chiacchierare e fare qualche lavoretto alla luce di una lampadina di poche candele, il cui chiarore si smorzava sulle grezze pareti del locale coperte di ragnatele. Quante sapienze antiche sono state trasmesse nel «felò»! Le donne filavano la canapa, facevano la calza o rattoppavano le braghe da lavoro degli uomini che stavano nell’angolo meno luminoso.

I bambini s’intrattenevano «a far caène» (catene) coi piccioli delle foglie di castagno, a ritagliare decorazioni di carta che poi appiccicavano all’interno umido della porta d’entrata, oppure ascoltavano le storie raccontate dai grandi, si divertivano giocando a tria, che aveva il disegno inciso su una panca, o si distraevano con giocattoli semplici, come una pipa fatta con il tutolo della pannocchia o un «pirlo» (trottola) ricavato dal rocchetto in legno del filo da cucire.

La donne più assidue al nostro «felò» erano la Cìol de Giuanèla e la Veàni, due coetanee della nonna. La prima era ancora più dolce del suo nome. Ogni anno ci raccontava la storia di suo marito, morto tragicamente in montagna a 29 anni, colpito dal filo a sbalzo con cui i contadini facevano scendere a valle fieno, strame e legna. Un brutto giorno il filo si spezzò, si attorcigliò attorno al giovane e lo sbatté contro le rocce della valle. A metà serata la Cìol andava regolarmente alla lettiera delle mucche, divaricava le gambe e pisciava in santa pace: come tutte le donne della sua età, non indossava le mutande!

Anche la Veàni, originaria della Val Vestino, era vedova. Era un’instancabile filatrice. Portava, come tutte le donne anziane, una sottana che arrivava fino alle calcagna e una mantellina di lana grezza che, appena entrata in stalla, deponeva sul cestone del fieno. Aveva un enorme gozzo di cui pareva che andasse quasi orgogliosa. Ai bambini che, con un misto di innocenza e malizia, le chiedevano cosa ci aveva dentro, rispondeva sbrigativa: «L’empiǜm de capù de Nadal» (il ripieno degli involtini di Natale).

I cortili erano importanti polmoni della contrada, ma erano quasi tutti inadatti per noi che giocavamo quindi sistematicamente in strada. Infatti anche i più spaziosi erano rimpiccioliti dalla presenza delle concimaie, della legna da ardere e dei bastoni dei fagioli, del carro e del pozzo della calce spenta che si usava quando si imbiancava un locale.

Il cortile dei Panine sarebbe stato comunque adatto ai nostri giochi, ma il vecchio Bèpi vi teneva in mostra le sue benne di varia grandezza, che intesseva con fusti d’orno. Un giorno cominciò anche un suo nipote a piegare bacchette per farne una professione stabile. Perciò scrisse sul muro con la calce: «Stabilimento bene», ma... di lì a una settimana partì per la Svizzera in cerca di un’occupazione più remunerativa.

Sarebbe stato ampio anche il cortile di fronte, ma il portone era sempre chiuso e non aveva fessure da cui spiare che cosa accadeva dentro: nella stalla c’erano due tori che a turno erano fatti uscire sotto il portico quando arrivava un contadino con la vacca in calore per farla ingravidare.

D’inverno la strada che scendeva verso il paese diventava una pista ghiacciata frequentata anche dai ragazzi delle altre contrade. Ma proprio quel tracciato due volte al giorno doveva essere attraversato dalle mucche che venivano condotte alla fontana ad abbeverarsi. Nasceva così una lotta silenziosa tra i contadini e i più arditi di noi: i primi spargevano cenere sulla pista, noi a tarda sera versavamo secchi d’acqua che di notte sarebbe gelata.

Ho nostalgia dei valori di prossimità solidale che se ne sono andati assieme all’acqua sporca della miseria della società contadina.