La morte fa paura e la nascondiamo
Riflessione pubbicata su L'Adige di oggi con partenza in prima pagina.
Al di là delle stravaganti simbologie di Halloween, la festa di Tutti i Santi e la commemorazione di Tutti i Defunti sono un’esaltazione della normalità, della vita quotidiana vissuta senza pretese di visibilità sociale, in spirito di servizio, senza che gli altri se ne accorgano. I Santi straordinari li festeggiamo uno alla volta nel corso dell’anno, quelli anonimi li ricordiamo tutti insieme l’1 novembre. Nell’ordinarietà della vita di ogni uomo può esserci qualcosa di straordinario. I Santi non sono solo quelli riportati sul calendario.
Ha scritto papa Francesco: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nella costanza per andare avanti giorno dopo giorno. È la santità della porta accanto, di quelli che vivono vicino a noi». «Tutti i santi vi salutano», scriveva Paolo ai cristiani di Corinto, riferendosi a persone normali che vivevano senza compiere gesti eccezionali.
Per questa ragione la festa di tutti i Santi è appaiata al giorno di tutti Morti. È un abbinamento che nella chiesa latina risale a mille anni fa, all’abate benedettino Odilone di Cluny, il quale stabilì che le campane dell’abbazia suonassero con rintocchi funebri dopo i Vespri dell’1 novembre per celebrare i Defunti, e che il giorno dopo l’Eucaristia fosse offerta per la pace di tutti i Morti.
Il culto dei Morti ha origini tuttavia fin dalla preistoria umana. Nella Bibbia iniziò in onore delle persone distrutte nel diluvio universale. L’aggettivo “tutti” istituisce una relazione soprattutto con i Defunti dimenticati della storia e, in particolare, con le vittime delle ingiustizie umane.
Il teologo evangelico Eberhard Jüngel, scomparso lo scorso 28 settembre, scrisse che «l’essenza della morte è l’irrelazionalità», ossia la mancanza di rapporti, la solitudine, ma aggiunse che questa è anche la condizione di ogni esistenza umana. Perciò - concludeva - alla morte bisogna iniziare a pensare da subito e non attendere le fasi finali della vita, perché essa è paradigma dell’esistenza. Aggiunse ancora: è compito di ognuno di noi lavorare per vincere la solitudine, nostra e degli altri, dei vivi e dei morti. Noi abbiamo responsabilità verso i morti, li dobbiamo mantenere vivi nella nostra vita.
Il cardinale tedesco Walter Kasper ha scritto recentemente bellissime pagine sulle vittime dimenticate della Shoah per richiamare tutti gli uomini alle loro responsabilità storiche e presenti. «Sarebbe sbagliato - ha affermato - se i cristiani si fermassero a dipingere se stessi come vittime della follia nazista. Certamente ci furono martiri cristiani, compresi quelli che furono uccisi perché, come persone giuste tra i popoli, difesero gli ebrei. Ma non ci furono solo cristiani retti, ma anche socialisti e atei retti che opposero resistenza e per questo pagarono con la vita. Purtroppo pochi teologi si espressero apertamente contro il crimine. La dissennata follia hitleriana riuscì a trovare un gran numero di convinti sostenitori e seguaci, ma molti altri girarono semplicemente la testa dall’altra parte».
Assistiamo oggi a una rimozione del bagaglio di colpe e responsabilità delle ultime generazioni. Rimuoviamo addirittura la morte. Oggi la morte viene nascosta. È un evento relegato, trasferito innaturalmente dalle famiglie agli ospedali, alle case di riposo e agli «hospice» dove sono portati a morire i malati terminali. E i funerali sono stati spostati soltanto alla chiesa e al cimitero. Non partono più dalla casa del defunto. Una volta il feretro percorreva le vie del paese, accompagnato dai sacerdoti e dai parenti, dal coro parrocchiale e dai bambini dell’asilo, dagli amici e dai compaesani. Oggi tutto è diventato più asettico e quasi burocratico, liquidatorio. Meno disturbante. Facciamo persino le condoglianze usando la scorciatoia di facebook.
Perché succede questo? Perché oggi della morte abbiamo più paura di ieri, ma è una paura latente, non manifestata, non socializzata, non vissuta comunitariamente. Oggi il compianto è più privato che comunitario, sicuramente più riservato, non più circolare come era vissuto fino a qualche anno fa. Abbiamo perso la confidenza con la morte. In passato il nostro comune destino finale era raffigurato sulle pareti delle case e delle chiese, perché la cultura del tempo vedeva nella morte, oltre che un momento per tutti ineluttabile, un fatto che pareggia le differenze sociali e le ingiustizie del mondo. Lo diceva anche Totò: “A morte è una livella”.
Su una casa del paese di Bondone, il comune più meridionale del Trentino che due anni fa è stato annoverato tra i borghi più belli d’Italia, c’è uno sbiadito dipinto che raffigura il re di fronte alla morte. La scritta di commento riassume la convinzione di chi ci ha preceduto in questa valle di lacrime: alla fine, davanti alla morte, tutti saranno uguali, il re come il carbonaio. Il sovrano, offrendo alla morte una borsa di denari, dice: «Prenditi o morte oro e argento a tuo piacere, lassami la vita ancor godere». La morte con la falce in mano gli replica: «Se l’uomo pagarmi potesse con oro e argento sarei padrona di ogni tesoro. Perché son giusta e retta non mi faccio conto alcuna ricchezza».