La rivoluzione dei giudicariesi

20.08.2021 17:08

A 253 anni di distanza, il 20 agosto del 2021, ho ricordato con un articolo su l'Adige la demolizione del dazio di Tempesta compiuta dai giudicariesi nel 1768. Di seguito l'articolo completo.

La rivoluzione dei giudicariesi

 

Nell’agosto di 253 anni fa, nel 1768, anche i giudicariesi scoprirono la rivoluzione, anticipando di vent’anni i francesi.

Da quando era stato istituito il principato vescovile di Trento, nei primi anni del secondo millennio, fino quando questo principato fu soppresso in età napoleonica, le Giudicarie, dette anticamente «Terra delle Sette Pievi», furono sempre unite e pacifiche nell’obbedienza al vescovo, e quindi all’Impero, di cui Trento era un feudo. Non lo furono quando un loro manipolo di quasi 200 scatenati andarono a demolire il dazio imperiale di Tempesta.

Poco dopo la metà del Settecento l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, desiderosa più che mai di mangiarsi il Trentino, compì un gesto che esacerbò gli animi dei giudicariesi e indusse alcuni a compiere un atto rivoluzionario, dimenticando gli ammonimenti dei parroci e curati e persino del vescovo.

L’imperatrice istituì un nuovo «casino del dazio» tra Torbole e Malcesine, ai confini meridionali dell’Impero, col compito di controllare tutti i movimenti delle merci su strada e su acqua. Lo spirito riformatore che aveva investito lo stato asburgico aveva portato alla soppressione del sistema tradizionale di appalto dei dazi di consumo e alla creazione di un ordinamento con riscossione diretta, che aumentava contemporaneamente le aliquote e, nel nostro caso, andava contro gli interessi del principato vescovile.

Le popolazioni delle Sette Pievi giudicariesi, da decessi insofferenti per il pagamento dell’imposta sul patrimonio fondiario («stéora»), si sentirono particolarmente colpite dagli aggravi ingiusti e insopportabili della nuova dogana, perché godevano di secolari privilegi nei commerci col territorio veneziano. Risultati vani tutti i tentativi per ristabilire la situazione precedente attraverso suppliche e missioni inviate al principe vescovo e a Vienna, nell’estate del 1768, alcune comunità decisero di andare a demolire quel dazio.

L’impresa fu deliberata democraticamente in consigli generali. Le tre pievi di Bleggio, Banale e Lomaso non aderirono alla spedizione; alla vigilia della partenza si defilarono anche Condino e alcune comunità della Rendena, sicché il peso e la responsabilità dell’impresa ricadde tutta sulle pievi di Bono e di Tione.

Il 20 agosto 162 uomini armati raggiunsero il lago di Garda attraverso il passo del Ballino e la Val di Ledro. La mattina del 21 - racconta lo storico contemporaneo Cipriano Gnesotti - «si avvicinarono per ogni parte al casino, fecero deporre le armi ai soldati, levarono gli attrezzi militari e, condotti tutti in presidio a Riva, demolirono il casino, bruciando i legnami». Venne incendiata anche la barca daziale che faceva la spola con Riva. Non ci furono vittime, ma giustizia era fatta.

I ribelli erano comandati dal prestinaio Pietro Vedovelli Perotì di Breguzzo che si valse di altri tre capipopolo: Andrea Vedovelli Gianì, anche lui di Breguzzo, Antonio Zoanetti detto Simonèla di Zuclo e il piemontese Martin Voglio, detto Mineràl, residente a Bondo.

Già il giorno successivo il misfatto, i capi, quasi ubriacati dalla rappresaglia compiuta e poco attenti alle conseguenze politiche che essa poteva avere, persero il controllo della situazione e cominciarono a litigare e a prendersela con persone innocenti. «Arrivati di ritorno in Riva - racconta ancora Gnesotti - i demolitori da varie case estorsero a forza di pertinaci millanterie mance, che si spartirono in diciassette soldi per cadauno sul bivio di Fiavè e Cavrasto, e nato ivi disparere si divisero, andando molti alle loro case e molti altri verso Stenico. Colà arrivati... occupate le piazze, il campanile, le strade, stando uno in mezzo alla piazza colla bandiera del dazio inalberata, insultarono il castello, facendone sloggiare i curiali e la famiglia del luogotenente».

L’autorità imperiale reagì immediatamente e minacciò pesanti ritorsioni, tali da spingere il popolo a pubbliche assemblee nel tentativo di creare una forza popolare di difesa dalle truppe imperiali già alle porte delle Giudicarie. A Tione, nel giorno della fiera, suonò la campana a martello che indicava l’avvicinarsi dei mercenari del generale Antonio de la Puebla, ma questa volta la voce del Vedovelli Perotì non si alzò per incitare gli animi contro i «nemici del popolo» e non accettò incarichi. La sconfortante sorpresa e l’amara delusione della gente si tradusse in un’immediata replica violenta per punire quello che sembrò un vero e proprio voltafaccia: qualcuno attese il Perotì sulla «pontéra» del Coré tra Tione e Breguzzo e gli sparò proditoriamente alle spalle con l’archibugio uccidendolo sul colpo.

Il governo imperiale obbligò il vescovo a processare e condannare i tre principali responsabili della spedizione che erano ancora in vita e impose alle comunità, che era state coinvolte «con cieco odio nell’esecranda azione di Tempesta» (così la definì Gnesotti), di sopportare per quattro anni il mantenimento delle forze militari inviate a presidiare il territorio. Dopo «rigoroso processo», il 14 marzo 1772 il Gianì di Breguzzo, il Simonèla di Zuclo e il Martin Mineral di Bondo furono decapitati in Piazza della Croce (oggi Cesare Battisti) a Tione. Il Mineral fu sepolto nel cimitero del paese per rispetto dell’età (77 anni), mentre i cadaveri degli altri due furono portati al Pian dei Morti, a monte di Tione, e lasciati insepolti, fino a consunzione, sopra un sasso, o «super rotam» come si legge nell’atto di morte del registro parrocchiale. Si tramanda che le teste mozzate furono portate al passo del Durone e infisse su pali sovrastanti la strada, a severo monito per le genti.

Agli altri partecipanti all’azione fu concesso il perdono, ma le comunità furono condannate a pagare una grossa penalità in denaro, oltre naturalmente a sottomettersi al versamento della vecchia «stéora».