Le grammatiche del dialetto
L'Adige di oggi pubblica, con partenza in prima pagina, questa mia riflessione sulle regole del dialetto:
Quando rifletto sul mio dialetto (di Storo), mi accorgo che ha molte regole che applico senza che nessuno me le abbia insegnate, né in famiglia, né tanto meno a scuola, né le ho lette sui libri. Le ho imparate parlando, fin da piccolo. Le ho applicate senza studiarle, a prova che una nuova lingua non si impara apprendendo prima le regole, ma ascoltando chi la parla e parlandola anche noi. Come fanno i bambini. Le regole della grammatica servono dopo, strada facendo. Faccio cinque esempi di regole tipiche del mio dialetto.
1. Nella coniugazioni dei verbi il mio dialetto raddoppia sempre il pronome personale nella seconda e terza persona singolare e nella terza plurale. Vediamolo col verbo «rìdar» (ridere): «mi rido, ti té ride, él al ride, noatre redóm, voatre redì, éi i ride». Oppure col più complicato verbo essere: «mi só, ti té sé, él l’é, noatre sóm, voatre si, éi i é».
2. In parecchi verbi la vocale tematica cambia nella prima e seconda persona del plurale. La i può cambiare in e, come nell’esempio sopra citato di «rìdar», o come in «vìdar» (vedere): «mi vido, ti té vide, él al vide, noatre vedóm, voatre vedì, éi i vide», oppure nella coniugazione di «terar/tirar» (tirare) e di «gerar/girar» (girare). In altri casi la e tematica cambia in un suono misto tra a ed e, come in « sagar/segar» (segare): «mi ségo, ti té séghe, él al séga, noatre sägóm, voatre säghì, éi i séga»; lo stesso avviene anche in «rastalar/rastelar» (rastrellare). In altri verbi la u cambia in o, come in «ancontrar/ancuntrar», la cui la vocale iniziale resta o scompare per facilitare la pronuncia: «mi ncuntro, ti té ncuntre, él l’ancuntra, noatre ncontróm, voatre ncontrì, éi i ancuntra».
3. Il mio dialetto non conosce il superlativo assoluto e io non lo uso mai quando parlo in dialetto, mentre oggi sta entrando dall’italiano nella parlata volgare di molti. Al posto del superlativo assoluto il dialetto a volte raddoppia ed enfatizza l’aggettivo. Così «vért verdènto» = verdissimo; «mis misènto» = bagnatissimo, bagnato fradicio, «marc marcènto» = completamente marcio, deterioratissimo, ma c’è anche «marc patòc». Altre volte il volgare ricorre a una perifrasi o a una comparazione, come fa talvolta anche l’italiano: «maür dal tüt, dalà de maür” = maturissimo; «dalà de bu, bu fin fò n cima, bu comà l pa» = buonissimo. Per designare una persona maliziosissima è molto incisiva l’espressione: «l’é n’anemal baùrc» = è un animale biforcuto, un animale due volte, è uno che proprio non intende ragione e segue i suoi capricci.
4. Il mio dialetto costruisce l’imperativo negativo col verbo stare: «ne sta dormir, ne sta desobedir», non dormire, non disobbedire ecc. Il bambino poteva chiudere così la sua lettera a santa Lucia: «Ne sta miga desmentergarte nò de mi che só n brào tosì» (non dimenticarti di me che sono un gravo ragazzino). Quando il parlante dialettale si esprime in italiano, si porta dietro spesso questo costrutto improprio: non sta dormire, non sta disobbedire, non sta dimenticarti.
5. Il dialetto usa molto spesso locuzioni in cui i determinanti «sü, giǘ, fò» seguono il verbo. Così abbiamo «bötar fò« per spuntare e per versare, «dar fò» per distribuire, «far fò» per sgranare, «magnar fò» per spendere, dilapidare, «far sü» per rifare (il letto). Il parlante in dialetto che lo ripudia e si butta a parlare la lingua nazionale, che non conosce e che ritiene più nobile, trasferisce queste locuzioni in italiano ottenendo un vero bastardo della lingua ufficiale: nell’orto buttano fuori le patate, vieni che ti butto fuori un bicchiere di vino, il maestro ha dato al mio bambino i quaderni da dar fuori, oggi faccio fuori i fagioli, in due giorni Giuseppe ha mangiato fuori la paga di un mese, ogni mattina la mamma fa su il letto.
Tutto questo per dire che il dialetto è una lingua con regole e costrutti propri che si imparano ascoltando e parlando. Stessa cosa vale per l’italiano e le altre lingue: si imparano ascoltando e parlando.
L’importante è che il bambino capisca che ci sono due modi di esprimersi, ambedue con una propria dignità: il dialetto e l’italiano. Tutti noi dobbiamo tendere con ogni sforzo alla conoscenza del secondo, che ci è indispensabile per uscire culturalmente dal ristretto orizzonte della nostra valle, ma per giungere a tanto è utile conoscere il dialetto. Il peggior nemico della lingua nazionale non è già il dialetto, ma quella specie di italiano provinciale senza vocaboli e senza stimoli culturali che si farfuglia un po’ dappertutto e che è un vero bastardo della lingua ufficiale. Un fanciullo obbligato a parlare in dialetto in casa e in italiano a scuola acquista un’elasticità mentale e una prontezza di riflessi che lo aiuteranno non poco nel proseguimento degli studi e nell’apprendimento delle lingue straniere.