Le parole della Pieve

29.12.2017 10:23

 

Nella primavera del 2016 sono intervenuto alla presentazione del “Dizionario dialettale della Pieve di Bono” di Alberto Baldracchi. Successivamente mi è stato chiesto di riprendere l'intervento per il notiziario "Pieve di Bono Notizie".

Il libro (608 pagine) registra anche parole e modi di dire di Bersone, Daone e Praso, confrontandoli con le voci di altri paesi vicini.

È stato un lavoro di lungo parto. Possiedo una bozza dell’autunno 2001, 15 anni fa, e non era la prima. Alberto ha trovato il coraggio di dire finalmente “basta” ai continui ripensamenti per fare meglio e ha consegnato il lavoro in tipografia.

Ne è uscito un libro importante. È una miniera del mondo di ieri che sta scomparendo o che è già scomparso. È un mosaico che si compone col trascorrere delle voci e delle più di 250 finestre e finestrelle che arricchiscono e contestualizzano il repertorio lessicale. 

Sono convinto che l’Autore abbia mirato sapientemente e soprattutto a fissare il ricordo del mondo della sua giovinezza, più che a una descrizione “scientifica del dialetto”. È stato fin dall’inizio consapevole che le parole erano un veicolo per arrivare al “medioevo” che chi è nato prima della metà del secolo scorso ha avuto la possibilità di vivere e conoscere.

Baldracchi è molto consapevole dei nessi tra parole e piccole storie. Lo ricorda espressamente nella Premessa: “Rammentare la parlata dei nostri avi ci consente di tornare con la mente e con il cuore alle nostre radici e fare così un poco della nostra storia”.

Io, del vocabolario di Alberto, ho apprezzato soprattutto questa dimensione: il legame tra le “nostre parole” e la “nostra storia”.

Faccio qualche esempio. Prediamo la parola “féra”, fiera, mercato. Il termine non avrebbe bisogno di altre spiegazioni, ma nel libro si trascina dietro, oltre ad alcuni modi di dire (“quèla pò tüta sta fera?”, “ala fin dela fera”), un proverbio attualissimo: “prëst ala fera e tardi ala guèra”. E si trascina dietro soprattutto alcuni contesti: in una finestra si parla delle “fere de Crèt”, con la “fera de mag’” e la “fera da otúar” o “de Santa Üstina”, che nel secondo giorno era detta “la fera dele fonne”, e si spiega perché.

E in un’altra finestra si parla della “féra dela Madòna dei palpacüi”, espressione che indica il mercato del Caffaro di settembre, con una spiegazione che l’Autore ha raccolto a Daone. Negli anni antecedenti la Grande Guerra sul confine del Caffaro esistevano i gabellieri. Le donne della Valle del Chiese si recavano a Lodrone a pregare nella chiesa della “Madòna de l’aiüt” e poi approfittavano per fare una capatina al mercato oltre il fiume, in Italia, dove trovavano stoffa buona e a buon prezzo. Per sfuggire alla gabella del dazio austriaco, nascondevano la stoffa acquistata sotto le lunghe ed ampie gonne, come fosse una fasciatura del bacino. Per un po’ la faccenda andò liscia, ma accortisi dell’inganno, i gabellieri cominciarono a palpeggiare le donne e accertarono che le obesità non erano naturali.

Baldracchi ha messo in pratica il suggerimento che il linguista Corrado Grassi ha fatto nell’introduzione al suo “Dizionario del dialetto d Montagne”: non bisogna farsi assorbire dall’individuazione dei dati formali; al centro dell’attenzione del ricercatore non dovrebbero esserci gli elementi strutturali; è necessario prestare tanta attenzione alle situazioni in cui agiscono i parlanti, evidenziare agli aspetti illocutivi delle parole, vedere cioè come esse giocano nei contesti, in bocca a persone diverse.

Questo ha una conseguenza enorme per i difensori del dialetto: il dialetto non si salva partendo dalla parola, o dalla scuola, ma dal suo uso e dall’osservazione del vissuto. Faccio altri due esempi di come Baldracchi ha registrato il nesso tra la parola e una situazione specifica.

Racconta dello straccivendolo di mezzo secolo fa. Girava la valle gridando alle donne “Stracemarie”. Per lui ogni donna era una Maria. Ma per tutti - poi - “stracemarie” ha significato semplicemente lo straccivendolo.

La parola “squintarnà” significa povero in canna, è sinonimo di “pòrdiaol”, ma il termine assume un colorito e una simpatia diversa quando Alberto riporta il modo di dire “squintarnà come chéi da Sèrle” e ricorda i poveri del paese bresciano che facevano accattonaggio nella nostra valle.

In questo libro, a volte, la rievocazione del passato si carica di nostalgia: “anni di miseria quelli, ma ci volevamo bene... oggi non è più così”. Non è più così neppure sul piano professionale. Parlando dello “stradùn” che aveva ai lati “muri fatti con grosse pietre, sagomate e combacianti ad arte”, l’Autore commenta: “Sono vere e proprie opere d’arte che solo i vecchi muratori erano all’altezza di fare”.

Alberto marca la differenza tra ieri e oggi. Lo fa per esempio quando parla “della colazione dei tempi andati” o dei giochi dei bambini. Il “tirastopa” non si usa più, nessuno spinge più per le strade del paese i “cerchiùn” senza raggi di una bicicletta. Marca la differenza quando parla della “Madòna dele cìgole”, la sagra di Strada, quando le donne comperavano le cipolle dagli ortolani di Salò. “Già da anni - annota - la sagra è ridotta al pomeriggio e le cipolle sono sparite”.

Marca la differenza tra ieri e oggi quando registra la voce “ciuncàda” e osserva: “Oggi sono pochissimi i contadini che confezionano in proprio la ciuncàda... la sprèssa è buona, ma è priva delle caratteristiche peculiari della nostra buona ciuncàda”. Sottolinea la stessa differenza quando racconta delle trappole per catturare le “tupine” per farne essiccare la pelle e venderla per confezionare pellicce da signora. Anche qui annota: “Oggi le tupine non si catturano più; non hanno più mercato”.

Bella la finestra che segue la voce “spasacamì”: “Passava una volta all’anno e veniva dal Banale. Era piccolo e sporco di fuliggine dal capo ai piedi; portava gli zoccoli. Le canne fumarie erano molto grandi e lo spazzacamino, dopo aver fatto una pulitura sommaria introducendo dall’alto un piccolo abete legato ad una corda, con un peso attaccato, vi entrava dal basso, arrampicandosi fino alla torretta sul tetto, poi scendeva raschiando la fuliggine secca depositata sulle pareti”. Poi, anche qui, il rammarico per la scomparsa di termini del nostro parlare: “Oggi le canne fumarie vengono pulite mediante aspiratori elettrici e gli spazzacamini non si sporcano di fuliggine”, né di “calìn” (fuliggine di scolo) né di “granéz” (fuliggine secca).

Collegata alla fuliggine c’è la finestra che racconta del rito pasquale della pulizia delle “cadene del föch”. Nella settimana santa, quando la mamma faceva le pulizie di primavera, i ragazzi le trascinavano per le strade sterrate del paese, poi le lavavano in un torrente o nel lavatoio pubblico e le riportavano in casa. Dopo tale operazione sembravano d’argento, ma ridiventavano nere appena la mamma “a tacava sü la prima minèstra”.

La frase “tacar sü la céna” o “la minèstra” si usa ancora, anche se molti non ricordano più il gesto dell’appendere la pentola alla catena del focolare (“tacar sü”). Oggi si dice di più “vó a mètar sü la céna”, cioè colloco la padella sulla “conòmica” o sulla “furnèla” o sul gas, ma alcuni dovrebbero dire “vó a trar fò la céna”, perché mettono in tavola un precotto del frigo scaldato al micro-onde.

La frase “Vò ‘ncontra al me fiöl che l’è dré a vegnìr da Trènt” mi ha fatto venire in mente un modo di dire del mio dialetto (Storo). Il papà è andato in montagna, a piedi ovviamente. Ha lasciato detto che sarebbe rientrato per la “céna”. Ma la mamma vuole “tacar sü la minèstra” e il marito non c’è ancora. Si preoccupa e dice: “Vó a scultarghe”, e si incammina verso l’imboccatura del sentiero, per cogliere l’eventuale rumore dei passi, per dargli voce e ascoltare se risponde. Il modo di dire è morto ancora prima che arrivassero i cellulari.

Nelle prime pagine Alberto fa una confessione: “Anch’io - scrive - ho ceduto alla moda infelice di introdurre in famiglia la lingua italiana, ritenendo che fosse di giovamento alla formazione culturale delle mie figlie. Già da parecchi anni mi sono ricreduto, è stato un errore!”.

Un giorno una mamma mi domandò perché non introducevo nella scuola media un’ora settimanale di dialetto. “Tu conosci bene il nostro dialetto?”, le chiesi. “Certo”, mi rispose. “E a casa con la tua bambina parli in dialetto?”, incalzai io. “Eh no, parlo in italiano, sennò a scuola trova difficoltà nella lingua”.

Se questo è il contesto, non serve a nulla introdurre l’ora di dialetto a scuola.

Inutilmente ho provato a far capire a quella mamma che così facendo privava la figlia delle logiche del dialetto, che nessun danno può provenire da un suo uso da parte dei giovani, che anzi il parlarlo è di tutto vantaggio per lo studente e favorisce lo sviluppo della personalità, che il peggior nemico della lingua nazionale non è già il dialetto, ma quella specie di italiano provinciale senza vocaboli e senza stimoli culturali che si farfuglia un po’ dappertutto e che è un vero bastardo della lingua ufficiale.