Memorie di un mondo scomparso

19.01.2022 10:55

Con questo titolo l'Adige di oggi pubblica un mio ricordo sui primi anni della mia infanzia. Ecco il testo integrale:

 

Ho vissuto i primi anni della mia infanzia (ultimi anni della Seconda guerra mondiale) in una grande famiglia matriarcale che abitava nella casa contadina di nonna Bettina. Dieci persone attorno alla stressa tavola.

La nonna non aveva cultura, ma era di volontà ferma e di mente sveglia: possedeva grande sensibilità, concretezza e religiosità, unite a un candore infantile. Le sarebbe piaciuto sapere di chi era la testa fina che aveva inventato il «flél» (correggiato) che vedevo maneggiare con destrezza dal papà e dagli zii per battere la segale e le pannocchie del granoturco. Si vantava di non essere mai andata al di sotto del Caffaro e al di sopra di Condino.

Era rimasta vedova a 36 anni, dopo la morte del suo Bortolo sui Carpazi, con cinque figli da crescere, quattro maschi e una femmina tra i 2 e i 14 anni. Aveva sviluppato così il “dono del comando”, come sottolineava la mia mamma con una malcelata insofferenza. La borsa dei soldi infatti era nelle sue mani, capofamiglia indiscusso: distribuiva le incombenze ai figli e alle nuore e controllava tutta l’economia familiare.

Lo zio più anziano si dedicava alla campagna e al bestiame, il più giovane tesseva la canapa in casa e, quando c’era necessità, dava una mano nei lavori agricoli, mio padre aveva abbandonato dopo tredici anni la miniera di barite e lavorava alla segheria Feltrinelli. Per una pipa di tabacco. Con lui lavorava anche il Bèpi Pàe, che faceva i salti mortali per mantenere la numerosa famiglia. Una mattina Bèpi non si presenta al lavoro. Il giorno dopo il signor Feltrinelli lo aspetta al cancello e lo assale con tono di rimprovero, ma lui replica tranquillo: «Siór padrù, só sta a mätar giǜ quàtar patate, se vöi vegnir a laorar par él a stanchievé» (signor padrone, sono stato a seminare le patate in modo da poter venire a lavorare per lei anche l’anno prossimo).

Sul fondo della cucina della nonna, uno stanzone senza finestre, lungo e stretto e con una sola lampadina da 15 candele, c’era un grande focolare in granito, unica fonte di calore del locale, affiancato da due rustiche panche di legno con schienale. Ricordo la nonna ricurva sul fuoco a preparare il «bösam», una soluzione di sostanze farinose usata dal figlio tessitore.

Sul lato opposto al focolare c’era la «scafa» (acquaio), anch’essa in granito, ma non c’era acqua corrente: era prelevata alla fontana pubblica con due secchi portati a spalla con la «enala», un bastone ricurvo usato come bilanciere, anch’esso - diceva la nonna - inventato da una testa fina. Sulla parete più lunga della cucina, di fronte alla tavola da pranzo e alla fotografia ingiallita del “povero” nonno in divisa da Kaiserjäger, era sistemato un mobile che nella parte superiore fungeva da piattaia, sotto la quale erano appesi i secchi dell’acqua, due «ramine» (paioli) per la polenta e un paio di «laväc» (pentole in bronzo) per la minestra della cena, immancabilmente con «foài» (tagliatelle) in brodo condito col burro. Un «bac» (madia) collocato tra il focolare e la piattaia conteneva in tre «clòs» (scomparti) la farina gialla, quella bianca e la crusca.

Non ricordo quali discorsi facevano i grandi quando si sedeva tutti insieme a tavola, per cui immagino che prevalessero i silenzi.

Su un poggiolo esterno all’abitazione c’era un cesso a caduta, collegato a una vasca che veniva svuotata un paio di volte all’anno, inondando di profumi tutta la vicina scuola. Quando i miei maestri arricciavano il naso infastiditi, io mi sentivo in colpa.

Le proprietà della campagna erano sufficienti per mantenere tre vacche da latte (la più bella si chiamava «Menòti», a ricordo del figlio di Garibaldi), una manza, una vitella e un paio di capre, alloggiate in una stalla spaziosa dove nei mesi invernali si faceva il «felò» con la presenza di una trentina di persone della contrada, tra le quali alcune filatrici. In una seconda stalla più piccola c’erano un mulo bolso, il maiale e alcune galline.

La camera di nonna Bettina stava nel cuore della casa. Aveva un’unica finestra che dava sul «màstac», il locale aperto e multiuso della casa contadina, con pavimento in calce, dove erano depositati alcuni attrezzi della campagna, le reti e i teli per raccogliere il foraggio e lo strame, e dove si scartocciava il granoturco e si battevano i cereali.

Finché si allevarono le «cavalére» (bachi da seta), erano molte le famiglie che consegnavano alla nonna le bustine con le «somèse» (uova dei bachi) per la cova. Le riponeva in un «tesolì» (tessuto di lana e canapa) che metteva tra il pagliericcio e il lenzuolo del suo letto. Qui le teneva per otto giorni, durante i quali non disfaceva mai il letto e non scopava la camera, così da non far raffreddare le uova e farle arrivare a maturazione grazie al caldo prodotto dal suo corpo nella notte e all’aiuto di uno scaldaletto di brace durante il giorno.

Bettina era molto affezionata ai due fienili di montagna. Vi saliva ogni estate quando si tagliava il fieno e vi restava qualche giorno di più «ai fréschi», come si diceva. Appena arrivata alla baita, andava sul dosso di là dal cortile, divaricava le gambe, metteva le mani ai fianchi e - guardando nella valle - gridava il suo singolare Jödel: «Eh stighe giǜ vèh, chiù-fu-fùi».

Aveva una vera passione per i marroni. Nei primi giorni di ottobre era dipinta nel castagneto preso in affitto dalla parrocchia, e ogni volta che sentiva un frutto battere sul terreno gridava: «I crùa» (cadono). La sua voce bastava solitamente ad allontanare i raccoglitori abusivi.

Quando andava a rastrellare il fieno nel ripido prato della Còsta, si inginocchiava e ricordava il nonno: nei ripiani inferiori del prato c’erano infatti ancora i resti del cimitero militare della Grande Guerra. L’ho sentita dire: «Chissà se una donna deporrà una margherita anche sulla tomba del mio povero Bortolo».