Niente acqua oppure il diluvio

16.07.2022 13:04

Il mio articolo pubblicato su L'Adige del 16 luglio 2016:

La nostra storia

Niente acqua oppure il diluvio

 

La siccità che tormenta quest’estate 2022 non è una novità. Quella del mio paese, Storo, fu storia di povera gente che lottò con l’inclemenza del tempo e delle stagioni. Si potrebbe scriverla usando come canovaccio il fiume Chiese, il torrente Pàlvico e i loro rapidi affluenti. Quanti disastri produssero nei secoli! La gente invocò impotente l’intervento del Cielo, inviò suppliche al principe vescovo e ai governi di Innsbruck e Vienna, alzò e riparò argini, liberò i campi dalla ghiaia. Fu un incessante lavoro di difesa e di risanamento, compiuto da gente abituata a ricominciare sempre da capo.

Col passare del tempo i contadini impararono a convivere con Chiese e Pàlvico. Ne incanalarono le acque dentro argini rudimentali e rubarono sempre nuova terra, bonificarono un po’ alla volta la piana in cui per secoli le acque erano corse in libertà, incrociandosi e formando insalubri acquitrini. Il paese era al sicuro, arroccato com’era contro la montagna, dalla quale però scendevano capricciosi e turbolenti ruscelli, che ogni tanto si gonfiavano e riversavano sull’abitato sassi, ghiaia e arbusti.

Il Chiese fu usato come via di commercio, per mandare verso la Padana il legname venduto ai commercianti lombardi; il Pàlvico e i ruscelli per produrre forza motrice per fucine e mulini. Un po’ alla volta gli uomini presero confidenza con la corrente del Chiese. Crearono barriere per ingrossarne le acque che, lasciate improvvisamente libere, spinsero verso il lago d’Idro anche i tronchi più grossi. Gli incaricati della comunità osservavano dalle rive le «bóre» che transitavano e le contavano attentamente, perché per ogni tronco entravano soldi nelle casse comuni.

Ogni tanto sorsero liti coi mercanti o coi paesi a nord della valle per il legname esalveato. Altri contrasti nacquero coi paesi vicini per le spese dei lavori fatti agli argini. Ma furono liti facilmente componibili. Finché il cielo se ne stava un po’ tranquillo, i traffici e i commerci potevano prosperare. Ma un giorno fiume e torrente uscirono di senno e iniziò una catena di disastri e lutti.

Tra il 1756 e il 1762 ci fu una serie di inondazioni ravvicinate che non lasciarono il tempo di riparare e rinforzare gli argini. L’onda alta e lunga toccò il massimo alla fine d’agosto del 1757. Le piogge dirotte squarciarono le deboli difese e inondarono tutta la piana trasformandola in un lago.

Nel luglio dell’anno successivo strariparono nuovamente i corsi d’acqua, i cui argini erano rotti o indeboliti. Seguirono quattro anni di calma e poi, nel novembre del 1762, un nuovo duro colpo. Diluviò per un giorno e una notte. La rigogliosa campagna era ormai un ricordo. La piana era inondata di sassi e ghiaia, i campi distrutti per sempre, un quarto dei terreni agricoli irrecuperabili a qualsiasi coltura. Gli uomini furono costretti a emigrare stagionalmente in Italia o più stabilmente a Venezia.

Ma se ci fermassimo al racconto delle inondazioni uscirebbe un’immagine meteorologica distorta. Alle storie di alluvioni si alternarono infatti periodi di siccità. L’acqua che era scesa precipitosa a valle aveva alzato il letto di fiume e torrente, e, straripando, aveva coperto la campagna di uno strato di ghiaia, così che le colture soffrirono presto per la «süta», perché cresciute su terreni ghiaiosi che solo in parte il contadino aveva recuperato col faticoso lavoro del «canopar» (rivoltare un terreno riportando in superficie l’humus fertile e mettendo sotto ciottoli e ghiaia).

Troppa acqua o niente! In ambedue i casi le conseguenze erano uguali: raccolto scarso, insufficiente. In una comunità con un’economia chiusa e fondata sull’agricoltura, fu carestia, il flagello che, assieme alle pestilenze e alle inondazioni, fu causa di massicce emigrazioni.

Fu prolungata e devastante la siccità di fine agosto 1774 che colpì tutta la Valle del Chiese: è - racconta lo storico contemporaneo Cipriano Gnesotti - «una siccità ostinata, non essendo piovuto da 10 luglio, cosa che fé moltiplicar le preci e fin i vescovi andar in processione per placar l’ira di Dio... Si convocò tutta la pieve... Fu provisto ognun di vitto, essendo per ordine publico chiuse le osterie con pena all’oste se vendeva... Finita la Messa si cominciò la processione. Ogni Cura, diretta dal suo Curato, cantava il Miserere con tal divozione che moveva le lagrime, rispondevasi col Miserere nostri Domine etc. Seguivano le Confraternite, la più copiosa a pié scalzi continuamente disciplinandosi [flagellandosi]... Dio pochi giorni dopo graziò della sospirata pioggia, che apportò ancora qualche fruttuosa raccolta”.

In un’epoca in cui Dio era sentito come l’Onnipotente che sta al di sopra e al di là, nell’alto dei cieli, l’Essere da cui tutto dipende, in tempi nei quali l’uomo si sentiva limitato, impotente, povero di risorse e di tecnica, i concetti di grazia, peccato e castigo diventarono la spiegazione di tutti gli eventi umanamente incontrollabili.

L’uomo si raccolse attorno ai ministri di Dio per placare l’ira divina che si manifestava in una terribile alluvione o in una prolungata siccità. Si moltiplicarono allora le funzioni di penitenza, le adorazioni e le processioni, il ricorso all’intercessione dei Santi e dei defunti.

A Storo era consuetudine rivolgersi ai morti che nel corso dei secoli, durante le epidemie, erano stati sepolti nel terreno circostante la chiesetta oggi dedicata a s. Maurizio, in sponda destra del Pàlvico. In un’arida estate, venne a pregare a questa chiesetta anche una povera donna di Condino, che teneva nei pressi del Chiese un unico piccolo podere ormai bruciato dal sole d’agosto, un «grèban». Al termine della Messa scoppiò un temporale così forte che si portò via anche il campo della devota, alla quale - sulla via del ritorno - non restò che constatare: «Come sono strambi i morti di Storo!».