Parole tedesche nei dialetti
L’articolo di Federica Ricci Garotti, pubblicato su L’Adige martedì 30 novembre, ha fatto riflettere sui concetti di monolinguismo, plurilinguismo, omogeneizzazione linguistica, specificità delle storie e parlate della comunità, e sul fatto che «l’equivalenza lingua-nazione non esiste in natura... è una forzatura socio-cuturale». Quest’affermazione trova riscontro quando si esamina la provenienza delle parole del dialetto.
Un bel gruppo di parole dei dialetti trentini è derivato dal tedesco seguendo due strade: la via militare e la via amministrativa. Faccio alcuni esempi cominciando da parole (del dialetto di Storo) introdotte dai giovani che fecero il servizio militare di tre anni nell’esercito austro-ungarico.
«Canistra» era lo zaino militare di forma rettangolare ricoperto di pelle col pelo. Ora indica un recipiente piatto, una tanica di latta o plastica usata per benzina o altri liquidi. La parola tedesca è «Kanister» (anche «Tornister»).
La stessa via di derivazione hanno seguito i dialettali «befél», «maród» e «faolènsa». Il sostantivo «befél» (o «pefél» - ramanzina) viene dal tedesco «Befehl» (comando, ordine militare). Al mio paese era la raccomandazione che il suocero faceva alla futura nuora qualche giorno prima del matrimonio: «Völirve bé nè! E te racomando da obedir. E pò varda che la nòsa cä l’é na cä de lavóro! Sét buna da felar, da far le foài? Sét buna da mùlgiar? E nar dré al fé te piàs?» (Voletevi bene! E ti raccomando di ubbidire. Guarda che nella nostra casa c’è tanto da lavorare! Sai filare, sai fare le tagliatelle? Sai mungere le mucche? Ti piace raccogliere il fieno?).
L’aggettivo «maród» equivale ad ammalato, indisposto, e deriva dal tedesco «marode», che significa stracco, incapace di continuare a marciare, mentre «faolènsa» indica persona pigra, scansafatiche: è la dialettizzazione del tedesco «Faulenzer” che l’italiano rende bene con poltrone, pantofolaio.
Il giovane Bèpi è militare in Carinzia da quasi tre anni ed è stufo di sottoporsi a marce spossanti. Un giorno vede che un commilitone austriaco è lasciato a riposare in caserma perché ha detto al «patrolfìer» (da «Patrouillführer», capopattuglia) che è «marode». La mattina seguente ci prova anche lui: «Patrólfier, mi só marót» (Comandante, non sto bene). Ma il superiore intuisce il sotterfugio e apostrofa il Bèpi: «Du bist ein Faulenzer, marsch!» (tu sei un poltrone, mettiti in marcia!).
Forse è stato trasferito dalla vita militare al dialetto anche il sostantivo «prosac» (sacco da montagna), che potrebbe derivare da «Brot-sack», sacco per il pane, tascapane. In qualche dialetto trentino lo zaino è detto anche «rusac», dal tedesco «Rucksack», letteralmente sacco per la schiena.
Nei diari dei militari trentini combattenti sotto l’Austria troviamo anche «felteche» per indicare la coperta da campo (da «Felddecke»), ma è termine scomparso come i suoi importatori. Si usava anche «filflòs» per indicare la borraccia da campo; è la storpiatura del tedesco «Feldflasche», in dotazione alle truppe austriache durante la Prima guerra mondiale; era in metallo smaltato, anche internamente; quando lo smalto si scrostava, produceva scaglie che potevano essere ingerite dal soldato, provocando gravi ferite intestinali. Il militare poteva allora esclamare con disappunto: «Farflùter!» (maledizione!) parola anche questa ormai non più usata: deriva dal tedesco «Verflucht».
Ci sono poi le parole entrate nel dialetto per la via amministrativa. Le «stévare» (o «stéore») sono le tasse, corrispondenti al tedesco «Steuer» («Steuere» al plurale). Era l’imposta governativa sul patrimonio fondiario, un autentico grattacapo per le famiglie contadine. Si raccoglieva a fine aprile («stéora de san Zòrs», ossia di s. Giorgio) e a fine novembre («stéora de sant’Andréa»). Anche questa parola oggi è praticamente scomparsa, lasciando il posto a Irpef, Irpeg, Ires, Irap, Imu e via complicando.
Quando in seguito alle disastrose alluvioni di fine Settecento, il governo austriaco fece realizzare i terrapieni in grado di regolamentare il corso di un fiume, entrò nella parlata volgare il termine «ròsta» che vuol dire argine. Deriva dal tedesco «Rüstung», che significa armatura, ma anche l’insieme di tutte le misure per difendere un paese o per prepararsi a un attacco militare. «Rüstung» si collega alla voce longobarda «hrausta», che originariamente significava fascio di frasche (usate anche per contenere un corso d’acqua) e poi più genericamente riparo.
Passando a lidi più pacifici e più salubri troviamo i «fìnfarli» o «fìnferli» (gallinaccio, «Cantharellus cibarius») che sono il tedesco «Pfifferlinge»; lo «snòl» (maniglia della porta), che viene dal tedesco «Schnalle» che ha il medesimo significato; l’aggettivo «masǘc» (testardo, zuccone) che richiama il tedesco popolare «Meschugge», equivalente a matto, pazzo.
Vanno ricordati infine i diffusi ancora oggi «raus» (fuori, via), «kaputt» (rotto, distrutto) e il «mal da l’urs» (irritazione della zona anale che sorge quando si siede sudati su una pietra fredda). Qui «urs» non ha niente a che fare con l’orso, ma è collegato al tedesco «Arsch» che vuol dire sedere.