Bezzecca e la verità su Garibaldi

08.08.2022 09:58

Di segfuito riporto il mio articolo pubblicato su L'Adige di ieri 8 agosto 2022: 

Bezzecca e la verità su Garibaldi

 

Nelle lettere a questo giornale, Carlo Simeoni (27 luglio) e Alberto Baldessari (2 agosto) si sono chiesti se fu una vittoria o una sconfitta quella di Garibaldi a Bezzecca, e hanno invocato che sia fatta chiarezza. «Questa vicenda - ha scritto Simeoni - è stata fatta passare, dal regime fascista, per una vittoria e ancora adesso si continua a travisare i fatti».

La mia replica si basa sulle memorie garibaldine che ho studiato e soprattutto sull’opera magistrale in due volumi di Enrico Gasperi, «Per Trento e Trieste. L’amara prova del 1866», pubblicata nel 1968 a Trento. Gasperi accompagna l’impresa di Garibaldi dall’arruolamento dei volontari fino alle conseguenze del noto «Obbedisco»; racconta i movimenti delle truppe e per ogni battaglia o scaramuccia riporta il numero dei caduti, prigionieri e feriti; riferisce infine della laboriosa tessitura delle diplomazie.

Nell’estate del 1866 le truppe italiane operarono su tre fronti. L’esercito regolare di terra era composto da due armate comandate dai generali Cialdini e La Marmora; il 24 giugno fu sconfitto a Custoza, a sud del lago di Garda. La flotta italiana, comandata dall’ammiraglio Carlo Persano, fu sopraffata a Lissa, nell’Adriatico, il 20 luglio. Al corpo dei volontari di Garibaldi, forte di 38.000 uomini, fu assegnato il compito di penetrare nel Trentino attraverso le valli del Chiese e di Ledro, dirigendosi verso il capoluogo.

Quando Garibaldi, partito da Salò, fece prendere ai suoi la strada del Chiese, decise di fatto che per sfondare in Trentino non era opportuno andare per le vie delle montagne, salire sui monti di Bagolino e poi scendere in Val Daone e prendere i forti di Lardaro alle spalle, oppure salire dalla Val Camonica al Passo del Tonale e irrompere nelle valli del Noce, oppure arrivare in Val di Ledro attraverso le mulattiere della Val Vestino e della Valle di Tremosine e scendere da Passo Nota. Furono direttrici seguite da alcuni dei suoi, ma il grosso dei volontari occupò la piana a nord del lago d’Idro: era meglio - decise Garibaldi - prendere il nemico di fronte, obbligarlo ad accettare battaglia nel fondovalle, costringere alla resa la guarnigione del Forte d’Ampola e penetrare in Val di Ledro, alla fine attaccare i Forti di Lardaro.

Furono quattro gli scontri d’armi più importanti nel Trentino meridionale: Monte Suello (3 luglio), forte d’Àmpola (15-19 luglio), Cimego (16 luglio), Bezzecca (21 luglio). Il numero complessivo delle perdite (morti e dispersi, prigionieri e feriti) in queste battaglie vide un rapporto di 5 a 1: furono 2.358 le perdite italiane, 507 le austriache. Garibaldi prevalse solo nella conquista del forte d’Àmpola.

Nell’immaginario collettivo entrò però l’idea che nell’estate del ‘66 Garibaldi stava vincendo. Ci sono delle ragioni per questa visione: le sue truppe, malgrado le perdite, avanzavano e tenevano il territorio, mentre gli austriaci si ritiravano sulle alture retrostanti e alleggerivano il fronte per opporsi ai prussiani vittoriosi a Sadowa (3 luglio). Poi c’era l’entusiasmo dei garibaldini, che esaltavano anche il più piccolo episodio e la conquista di ogni dosso. Ci furono inoltre le versioni della diplomazia italiana che, mentre con l’intermediazione della Francia trattava la pace con la cessione del Veneto all’Italia, aveva interesse ad evidenziare l’avanzata delle Camicie Rosse, cercando così di attenuare il fatto che le altre forze erano state gravemente sconfitte.

Alla battaglia di Bezzecca del 21 luglio parteciparono 4.000 austriaci e oltre 5.000 garibaldini. Fu un combattimento cruento che si svolse in tre fasi. Alle prime luci dell’alba gli austriaci scesero dai monti Pichea, Trat e Saval, occuparono Locca, il colle di S. Stefano e il paese di Bezzecca, fecero oltre mille prigionieri e costrinsero gli italiani a ripiegare verso Tiarno. Nella seconda fase, a partire da mezzogiorno, Garibaldi fece portare due cannoni sui prati di S. Lucia e ordinò di avanzare alle nove compagnie comandate da suo figlio Menotti; i bombardamenti incendiarono le prime case di Bezzecca e scompigliarono i reparti nemici. La terza fase fu segnata dal sanguinoso contrattacco dei volontari, che avanzarono a baionetta inastata, liberarono il paese e costrinsero gli austriaci a ritirarsi.

Il cronista contemporaneo Francesco Cortella annotò: «21 luglio - sabato ... Il telegrafo ore 4 di sera segna cessato combattimento micidiale per i volontari italiani, ma che però gli austriaci presero la fuga». La nota rende bene l’esito della battaglia: le perdite italiane (121 morti e dispersi, 1.070 prigionieri, 451 feriti) furono molto superiori di quelle austriache (26 morti e dispersi, 100 prigionieri, 89 feriti), ma alla sera gli austriaci abbandonarono il fondovalle e si ritirarono sui monti.

Due memorie popolari raccontano le tragiche ore di Bezzecca. Furono scritte da Giuliano Venturini, medico condotto della valle, che curò i feriti abbandonati sul campo, e dal sacerdote don Giacomo Riolfatti. A queste due testimonianze suggerisco di aggiungere le due cronache garibaldine di Eugenio Checchi («Memorie alla casalinga di un garibaldino») e Ludovico Beha («Il prigioniero garibaldino»), il primo ferito a Bezzecca, l’altro fatto prigioniero. Checchi parlò di «vana effusione di sangue, guerra disgraziatissima, mancate vittorie, fallito successo», Beha di «sangue inutilmente versato».

Molti dei feriti a Bezzecca furono portati nella chiesa di Tiarno di Sotto trasformata in ospedale e furono curati dai medici e dalle infermiere del «Comitato di soccorso dei militari feriti», primo nucleo della Croce Rossa Internazionale, fondato nel 1862 a Ginevra, che intervenne la prima volta in Italia proprio nella campagna garibaldina del ‘66. Nella chiesa di Tiarno prestò la sua opera anche il curato don Giovanni Battista Cellana, che al medico svizzero Louis Appia continuava a ripetere: «Bellum terribile Dei flagellum!».

L’avanzata di Garibaldi fu interrotta dal telegramma di La Marmora del 9 agosto che recava l’ordine di abbandonare il Trentino. Garibaldi lo ricevette a Bezzecca, in casa di Giacomo Cis. I cronisti contemporanei riferiscono che non accettò di buon grado l’ordine di ritirarsi: stracciò sacramentando il dispaccio, spezzò la spada dalla rabbia, quindi - lasciato passare un po’ di tempo - disse: «Si annuisce» e fece scrivere il sofferto «Obbedisco». Nelle ore seguenti i garibaldini si ritirarono sotto il confine Caffaro abbandonando anche la lettiga che era servita a Garibaldi dopo la ferita di Monte Suello.