I riti antichi della Pasqua
L'Adige 1 aprile 2021
Tra i ricordi della mia infanzia ci sono le brezze primaverili cariche dei profumi dei prati erpicati e delle prime zolle rivoltate. Nei giorni attorno alla Pasqua quest’aria buona saliva dalla campagna a inondare le vie del paese, allora interamente agricolo, dove per tutto l’inverno era ristagnato un intenso odore di stalla. Tra i miei ricordi ci sono il silenzio del venerdì santo, il gracchiare della raganella («graüc» in dialetto), le funzioni (tutte la mattina presto e tutte rigorosamente in latino) celebrate in una chiesa che custodiva ancora il freddo della stagione appena finita (ad eccezione della benedizione del fuoco che era fatta sul sagrato). Tra le mie reminiscenze ci sono infine il suono festoso e ripetuto delle campane nella domenica della risurrezione e la benedizione delle case una settimana dopo.
La raganella è un piccolo strumento a mano formato da una ruota montata su un perno, attorno al quale è issato il telaio con una lamina che strisciando contro i denti della ruota produce un suono stridente. Noi ragazzi la usavamo negli ultimi giorni della settimana santa quando le campane tacevano in segno di lutto per la morte di Gesù («quanc che i angrópa le campane», quando fanno un nodo alle corde delle campane). Il termine dialettale deriva dal latino «graula», cornacchia, perché il rumore dello strumento ne richiama il verso.
In chiesa però non si usava il «graüc». Qui il campanello, suonato al momento dell’elevazione dell’Ostia, era sostituito dalla più nobile «tambèla», una tavola di legno con battente in ferro, che era stata usata in passato dal saltaro comunale quando faceva il giro del paese a convocare l’assemblea dei capifamiglia («ad sonum tabulae», dicono i documenti).
La settimana santa era aperta dalla domenica delle palme. Il parroco benediva l’ulivo e tutti ne portavano a casa un rametto e lo appendevano in cucina accanto all’immancabile immagine della Madonna o del Sacro Cuore. L’intervento del Cielo a difesa dei campi era talmente radicato nell’immaginario collettivo che - si racconta - quando, nelle giornate afose dell’estate, improvvise nubi nere minacciavano grandine, approfittando forse di una distrazione dei Santi invocati, un vecchio contadino buttava tutta la riserva familiare di ulivo sul fuoco. Tratteneva solo un ramoscello che immergeva nell’acqua benedetta, che la moglie aveva portato dalla chiesa il sabato santo, poi si affacciava alla porta del fienile e aspergendo la sua vigna gridava solenne, mischiando latino e dialetto: «Tempestas tempestorum foram dal rochum meum». In tutte le case c’erano vicino al letto delle piccole acquasantiere con l’acqua benedetta in cui si intingevano tre dita della mano destra per farsi il segno della croce prima di coricarsi.
In tre giorni della settimana santa il parroco recitava, alla mattina presto, davanti a pochi fedeli, l’ufficio canonico del «Mattutino delle tenebre» (anche questo tutto rigorosamente in latino). La funzione era caratterizzata dal progressivo spegnimento di quindici candele poste su un candelabro triangolare e da uno «strepitus» verso la fine dell’ufficio, quando nella totale oscurità il sacerdote batteva leggermente i piedi per simboleggiare il terremoto che si era verificato alla morte del Signore. L’unica ed estemporanea partecipazione dei fedeli avveniva proprio in questo momento: ci mettevano tutti a battere i piedi con insistenza, tanto che il celebrante doveva intervenire a sedare il baccano. Per questo la funzione dei «Matütì» era anche detta «I bat i pé».
Durante il triduo pasquale c’era la pratica devozionale delle Quarant’ore, consistente nell’adorazione, per quaranta ore continue, del Santissimo Sacramento che, dopo la funzione del giovedì santo in memoria dell’istituzione dell’Eucaristia, era riposto in un’arca collocata su un altare laterale.
Alla sera del venerdì santo c’era una lunga processione per il paese con la «crus col gal», una croce di legno alta sei metri. I due bracci erano parallelepipedi composti da riquadri al cui interno c’erano delle candele accese che illuminavano i simboli della passione di Cristo. Ricordo il gallo in cima, poi più sotto un martello con i chiodi, la colonna della flagellazione, la corona di spine, il flagello, i dadi coi quali i soldati si giocarono le vesti del condannato, il velo della Veronica, una piccola scala, la lancia usata dal soldato romano per trafiggere il costato del Crocifisso. I simboli erano intarsiati sulle tavole che formavano la croce e coperti da carta velina di colori diversi; la fioca luce delle candele li faceva risaltare nel buio della notte. I bambini erano incantati davanti alla «crus col gal» e i più grandicelli si dicevano che l’uomo che la portava era certamente il più forte del paese.
Le feste di Pasqua si concludevano con la benedizione delle case nella domenica dell’ottava, detta anche «in albis» (in bianche vesti), perché nella chiesa antica il battesimo era amministrato durante la notte della risurrezione e i battezzandi indossavano una tunica bianca che deponevano solo nella domenica dell’ottava.
Per noi chierichetti era una festa accompagnare nella benedizione delle case il parroco e il sacrestano che portava al braccio un grande cesto di vimini in cui riponeva le uova raccolte nelle case. Dove il sacerdote si fermava a prendere un caffè o un bicchierino di vermut, noi ricevevamo un biscotto o una caramella. Ogni famiglia metteva nel piatto al centro del tavolo della cucina alcune uova, attorno alle quali erano disposte le immagini sacre ricevute alla Comunione: certificavano che tutti quelli di casa avevano assolto il precetto pasquale.