Il telegrafo e l'Obbedisco di Garibaldi

16.07.2021 10:50

 

155 anni fa, nel mese di luglio del 1866, le Camicie Rosse di Garibaldi percorsero le valli del Chiese e di Ledro costringendo gli austriaci a ritirarsi. Al corpo dei volontari, forte di 38.000 uomini, era stato assegnato il compito di penetrare nel Trentino. Furono quattro le battaglie più importanti: Monte Suello (3 luglio), forte d’Àmpola (15-19 luglio), Cimego (16 luglio), Bezzecca (21 luglio). Il numero complessivo delle perdite vide un rapporto di 5 a 1: furono 2.358 le italiane, 507 le austriache.

Nell’immaginario collettivo entrò però l’idea che Garibaldi stava vincendo. Ci sono delle ragioni per questa visione: le sue truppe tenevano il territorio, mentre gli austriaci si ritiravano sulle alture retrostanti e alleggerivano il fronte per andare ad opporsi ai prussiani che li avevano battuti a Sadowa (3 luglio). Poi c’era l’entusiasmo dei garibaldini, che esaltavano la conquista di ogni dosso. Ci furono inoltre le versioni della diplomazia che, mentre con l’intermediazione della Francia trattava la pace con la cessione del Veneto all’Italia, aveva interesse ad evidenziare l’avanzata delle Camicie Rosse, cercando così di attenuare il dato di fatto che le altre forze italiane (esercito regolare e flotta) erano state gravemente sconfitte.

A marcare l’avanzata di Garibaldi ci fu la novità della contemporanea avanzata della rete telegrafica con nodi posti ad una distanza di non più di 10 chilometri l’uno e dall’altro. Il telegrafo inviava messaggi mediante impulsi elettrici, trasmessi attraverso un filo di ferro o di rame e utilizzando un codice, brevettato nel 1837 dallo statunitense Samuel Morse, che sostituiva sequenze di impulsi lunghi o brevi a lettere dell’alfabeto, a numeri e a segni di punteggiatura.

Nella guerra del 1866 i telegrafisti italiani erano soldati del Genio non sempre addestrati, così che spesso si dovette arruolare personale civile più competente e talvolta si ricorse ancora alle staffette. Per trasmettere le disposizioni Garibaldi aveva sempre usato dei veloci portaordini, che continuarono ad esserci anche nella campagna del ‘66, al pari delle guide che accompagnavano i volontari in territori sconosciuti. Il Generale tuttavia fece uso anche del telegrafo sia per i collegamenti con lo stato maggiore del generale La Marmora che per comunicare con i suoi reparti più avanzati.

Nella battaglia di Monte Suello Garibaldi fu ferito da pallottola amica. Venne trasportato in una locanda di Anfo. Qui, il giorno 12, comunicò il suo piano d’azione al primo ministro Bettino Ricasoli: per sfondare in Trentino si doveva obbligare il nemico ad accettare battaglia nel fondovalle, costringere alla resa la guarnigione del forte d’Àmpola e penetrare in Val di Ledro.

Il giorno 14 spostò il quartier generale a Storo, dove lo mantenne per 12 giorni. Gli addetti al telegrafo arrivarono il giorno seguente e furono sistemati in edifici adiacenti al palazzo signorile che ospitava il Generale. Il reparto telegrafico era composto da un colonnello, 60 uomini, 30 muli e 2 cavalli. La consistenza del reparto si spiega per il fatto che il prolungamento del servizio telegrafico non era impresa facile quando l’operazione andava fatta in zone montane impervie: bisognava stendere il cavo e isolarlo da terra attaccandolo ai tronchi degli alberi o a pali piantati allo scopo.

Coll’aiuto del telegrafo Garibaldi diresse le operazioni della presa del forte d’Àmpola e delle battaglie di Cimego e Bezzecca. Già il giorno 16 il filo fu portato alla batteria di Santa Croce, sulle pendici della Rocca Pagana sovrastanti la gola che apre alla Val di Ledro, dove erano stati trascinati alcuni pezzi di artiglieria per bombardare il forte. Il giorno 17 arrivò dalla batteria un dispaccio che riferiva che l’artiglieria dei volontari aveva «distrutto tutto il coperto della fortezza». La guarnigione però si arrese solo due giorni dopo, grazie allo stratagemma di un garibaldino che scese per le balze rocciose, entrò nel forte ed ordinò ai nemici di arrendersi.

Il giorno 20 furono realizzati i collegamenti telegrafici con una postazione dirimpetto alle fortificazioni di Lardaro e con una di Tiarno. Per entrare in Val di Ledro i genieri non seguirono la gola dell’Àmpola, ma il percorso che dopo la battaglia di Cimego del giorno 16 avevano fatto i volontari, salendo cioè dal solco del Chiese ai fienili di Rango e poi ai passi che portano al fondovalle ledrense. Questo è avvalorato dal fatto che il dispaccio di La Marmora a Garibaldi del 9 agosto passò per i nodi telegrafici di Storo e Rango e giunse alla destinazione finale a Bezzecca.

Alla battaglia di Bezzecca del 21 luglio parteciparono 4.000 austriaci e oltre 5.000 garibaldini. Fu un combattimento cruento. Bezzecca è considerata una vittoria italiana, ma i garibaldini ebbero perdite molto superiori a quelle austriache. Il cronista contemporaneo Francesco Cortella annotò: «Il telegrafo ore 4 di sera segna cessato combattimento micidiale per i volontari italiani, ma che però gli austriaci presero la fuga». Il giorno dopo fu istituita anche a Bezzecca una stazione telegrafica nel palazzo di Giacomo Cis.

Mentre si facevano sempre più insistenti le voci che Vienna era disponibile a cedere il Veneto, nelle prime ore del giorno 25 il telegrafo batté l’avviso di una sospensione d’armi. Era chiaro ormai che la diplomazia stava interrompendo il sogno dei volontari di portare il Trentino nel Regno d’Italia.

La mattina del 9 agosto il telegrafista ricevette un dispaccio di La Marmora indirizzato a Garibaldi, che si trovava a Bezzecca in casa Cis: «Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell’armistizio per il quale si richiede che tutte nostre forze si ritirino dal Tirolo d’ordine del Re». Il cronista riferisce: «Mi si dice che Garibaldi stracciò a pezzi il telegramma, poscia rispose: Si annuisce. Questa sera grande rumore, e tutto sa di tradimento». Il telegrafista garibaldino batté una sola parola di risposta: «Obbedisco».

La Marmora tirò un sospiro di sollievo, perché non era affatto sicuro che Garibaldi si fermasse. Fece poi una copia della risposta e la consegnò al Re. Questo documento fu esposto cinque anni fa al Museo Garibaldino di Bezzecca, ma è evidente che la firma di Garibaldi non è autografa.