Origini delle parlate giudicariesi

27.09.2022 10:42

L'Adige di oggi pubblica la mia riflessione sull'origine dei dialetti dele Giudicarie. Di seguivo il testo integrale:

Origini delle parlate giudicariesi

 

Forse nessuna comunità trentina come quella delle Giudicarie mostra al suo interno evidenti differenze nelle parlate dialettali. Colpa (o merito) dell’estensione e conformazione del territorio e della prossimità al confine lombardo. Eppure queste differenti parlate hanno qualcosa di comune. Le ha studiate molto il tionese Ezio Scalfi, morto nel 2004 e autore del vocabolario «Duemila parole del mio paese» (Trento 1983) e di numerosi articoli raccolti in «Il donchisciotte del dialetto» (Storo 2000) e «Voli all’indietro» (Tione 2006). Scalfi amava dire di se stesso: «Sono un uccello che vola all’indietro perché non mi interessa vedere dove vado, ma ricordare da dove sono partito».

Ha scritto che le parlate giudicariesi sono dialetti italiani e quindi, risalendo, neolatini e indoeuropei. Va bandita l’idea che il volgare del popolo sia un italiano corrotto; noi parliamo la lingua dei nostri avi, di quelli che nei secoli sono vissuti nelle nostre valli. Questa lingua, tuttavia, ha subito, ed ancor oggi subisce, numerose modificazioni. Essa è giunta fino a noi tramandata da padre in figlio, non indipendentemente dalla lingua italiana ma collateralmente ad essa. I dialetti giudicariesi sono trentini in quanto le vicende storiche dell’ultimo millennio riportano le Giudicarie a Trento, ma non si può negare quanto hanno preso dalla loro storia più antica e l’influenza del Bresciano con il quale confinano.

Anche il patrimonio lessicale che i giudicariesi adoperano nel parlare si può dividere in tre grandi categorie: 1. Parole legate a imitazioni e suoni della natura: si pensi a «gròla» (cornacchia) o al verbo «babar» (parlare). Si dicono onomatopeiche (dal greco «onòmaton» = nome e «poièin» = fare, cioè il suono fa il nome); con più semplicità potremmo chiamarle espressive. 2. Parole latine che sono state trasmesse a noi da generazione a generazione senza interruzione; è il gruppo più importante. A queste si aggiungono i latinismi, ossia quei termini che, grosso modo a partire da Dante, hanno fornito all’italiano le voci che esso non aveva e l’italiano le ha trasmesse al dialetto; i latinismi sono molti, ma dal punto di vista del dialetto hanno poca importanza, sono di competenza dello studioso dell’italiano. 3. Parole affluite, in epoca più o meno lontana, da quelle comunità che hanno agito sulla nostra; sono parole arrivate dal greco, gotico, 1ongobardo, francone e poi tedesco, francese, inglese, americano ecc. Pensiamo, per fare un solo esempio, ai neologismi militari austriaci che però tendono a scomparire o sono già scomparsi.

La stragrande maggioranza delle parole da noi usate proviene dunque dal latino, ma bisogna notare che dicendo latino non si intende quello che si studia (o si studiava) nella scuola, che è doppiamente limitato: in primo luogo limitato nel tempo, perché è quello di un secolo prima e di qualche secolo dopo Cristo, mentre il latino è stato usato diffusamente fino al 1700; in secondo luogo limitato alla classe dei parlanti, che è la classe colta che trasmette per scritto i suoi modelli letterari.

Scalfi ha scritto: «Quello che parliamo noi giudicariesi è l’ultimo latino. Latino imparato dal nostro settantesimo o ottantesimo antenato (non già Cicerone, ma probabilmente un Gallo), trasmesso da padre in figlio fino a noi senza nessuna soluzione di continuità, ma con continue trasformazioni che del resto sono ancora in atto e che finiranno soltanto con la morte del nostro dialetto. È chiaro ormai che oltre alle parole che sono sempre state nel nostro dialetto (almeno da 2000 anni) ce ne sono di quelle che continuamente vi sono entrate e tuttora vi entrano e altre che altrettanto continuamente ne escono: ad un oggetto nuovo bisogna dare un nome nuovo; il nome di un oggetto che non si usa più tende a scomparire».

Premesso tutto questo, si può tracciare una storia schematica dei dialetti giudicariesi. Quando i Latini, popolazione indoeuropea, giungono in Italia attraverso le Alpi Orientali o l’Alto Adriatico (3000 a.C.), trovano una gente che parla un’altra lingua che si è soliti chiamare preindoeuropea o mediterranea. Successivi arrivi di altre popolazioni indoeuropee complicano le cose dando origine in Italia a parecchie lingue. Limitandoci al Settentrione alpino, 2500 anni fa, quando gli Etruschi perdono Roma e i Celti entrano nella pianura Padana, esistono tre gruppi di parlanti: a ovest i Liguri, al centro i Reti, a est i Veneti.

Gli antenati giudicariesi parlavano il retico, poi modificato dall’arrivo dei Romani in Giudicarie verso il 100 a.C. Il latino, quello parlato naturalmente, favorisce una mescolanza di strutture e di vocaboli sulle antiche parlate, ma viene a sua volta influenzato da esse dando origine a quello che da questo momento possiamo chiamare dialetto giudicariese.

Per 500 anni non avvengono grossi mutamenti anche se la trasformazione è continua. Poi la fine della comunità imperiale prodotta dalle invasioni provoca un impoverimento della lingua latina. Nel 500 Teodorico ha reggia a Verona; l’influenza del gotico, anche se la supremazia durerà solo cinquanta anni, sarà sensibile e lascerà qualche traccia anche nei dialetti. Nel 570 giungono i Longobardi e rimangono per due secoli sul nostro suolo; gli occupanti, pur assumendo come lingua il latino, lo modificano introducendovi una larga messe di vocaboli della loro vecchia parlata, che passano nel nostro dialetto e più tardi nella lingua italiana. La stessa cosa accade con i Franchi che occupano il paese dopo i Longobardi.

Dopo il 1000 in Giudicarie per 800 anni comanda il vescovo e il fluire del dialetto continua senza scosse, pur assorbendo dal centro di Trento parole e termini dalla burocrazia politica e religiosa. Il dialetto non cambia molto nemmeno con i 100 anni di autorità austriaca: qualche vocabolo, si è già detto, entra e rimane nella parlata volgare, qualche altro entra ed esce.

Il dialetto intanto continua il suo corso, forse verso la fine; la parlata del nonno è differente da quella dei padri e questa da quella dei figli. Oggi, dopo il tramonto della società contadina, i mass media stanno per uccidere il dialetto. «Di fronte a tale stato di cose - ha scritto Scalfi - non piangeremo, ma ci sia lecito almeno il rammarico».