Per il vocabolario del dialetto
Nei giorni scorsi ho partecipato a Condino a un piccolo convegno sul dialetto. L’intenzione degli organizzatori era quella di stimolare l’attenzione verso la parlata locale e raccogliere suggerimenti per la stesura del vocabolario del dialetto.
Io ho esposto qualche nota su che cosa mi ha facilitato il lavoro nella compilazione del vocabolario del dialetto di Storo ed ho presentato quattro attenzioni che ho auto presenti nel mio lavoro, le quali possono anche essere indicazioni per chi si propone di fare qualcosa di analogo.
Queste le attenzioni/consigli:
a) Primo: definite subito la grafia da usare per rendere i suoni tipici del vostro dialetto, ma fermatevi all’essenziale, che per me è questo:
Vocali - vanno sempre segnate con accento le vocali e ed o toniche, coll’accento grave le aperte (mès - mezzo, metà; tòc - tocco, pezzo) e acuto per le chiuse (més - mese; ból - bollo). Le e ed o non toniche sono sempre chiuse e non serve segnarle coll’accento. L’accento sulle e e le o viene ad avere quindi una doppia funzione: indica la sillaba su cui cade l’accento della parola (accento tonico), e anche l’apertura/chiusura della vocale (accento fonico). Mi pare che una caratteristica del dialetto di Condino siano i suoi chiusi.
Il raddolcimento della o e della u può essere indicato con la dieresi (ö - ü).
Non consiglio di addentrarsi a distinguere i suoni differenti delle a e delle i.
Consonanti: è essenziale distingue la c dura (casa, cassa, cassapanca) e la c dolce (centésam, centesimo); vanno distinte la s sorda (come in sal, sale) e la s sonora (àsan - asino). Non chiedetemi come rendere i suoni delle tipiche nasali del dialetto di Condino.
Inoltre vanno sempre accentate le sdrucciole e le bisdrucciole (parole con accento tonico sulla terzultima o quartultima sillaba).
b) Secondo consiglio: non tormentatevi a ricercare l’etimologia, perché questo è un terreno insidioso che non rende un grande servizio alla ricerca linguistica regionale.
Nel dialetto di Storo l’aggettivo marót significa ammalato, indisposto. È una voce quasi scomparsa. Un mio amico sosteneva che viene da malridotto. Non è vero, deriva dal tedesco marode, che significa stracco, incapace di continuare a marciare; è probabile che marót sia entrato nel dialetto attraverso il gergo militare; così come faolènsa, persona pigra, fannullone, scansafatiche, che viene dal tedesco Faulenzer (poltrone).
c) Terzo consiglio: occorre prestare molta attenzione alla manciata di parole che un dato dialetto ha soltanto come sue, originali, totalmente diverse da quelle dei paesi vicini. Ce ne saranno al massimo una trentina per paese.
Per il dialetto del mio paese segnalo bòrciola (ragnatela) che a Condino è tarabòra o talabòra, a Bagolino barósa, a Por talamòra.
Oppure, altri esempi, il morbillo a Storo è broìc, a Bagolino brós, a Pieve di Bono svèrsa, a Roncone sfèrsa, a Condino non lo so. A Storo fanèla è la giacca mentre la flanella è màia sóta. La slitta è vas, termine che non si trova nei dialetti vicini.
d) Quarto e ultimo consiglio, forse il più importante: non fatevi assorbire dall’individuazione dei dati formali delle parole; al centro della vostra attenzione non mettete gli elementi strutturali; è necessario piuttosto riferire le situazioni in cui agiscono i parlanti, evidenziare gli aspetti illocutivi delle parole, vedere cioè come esse giocano nei contesti, in bocca a persone diverse.
Per questo motivo nel mio lavoro ho accompagnato le parole con modi di dire, proverbi, aneddoti, tradizioni della cultura popolare e riferimenti storici e toponomastici, nei quali la parola svolge una funzione consolidata e strutturata.
Nel mio dialetto il verbo coionar sta per canzonare, scimmiottare. Questo secondo significato è reso molto bene nel modo di dire coionar i òrbi che sta per andare a dormire.
Chiudo con uno dei più bei proverbi che ho registrato. A Storo per dire che uno era avido e avaro si diceva: L’éra tant antarasà che al l’arìa slongà a l’àqua.
Buon lavoro