La Fabbrica e il Pese

Presentazione del libro “La Fabbrica e il Paese” di Gianfranco Miglio - sala del Comune - Storo 29 marzo 2019

 

Era un po’ di tempo che Franco Miglio coltivava l’idea di questo libro. Quando due anni fa mi sono incontrato con lui per parlare di come il paese di Storo ha vissuto l’esperienza della Sapes, arrivata a Storo nella primavera del 1947 e giunta ad occupare quasi 200 persone a metà degli anni 60, e quando ho saputo, in occasione di quell’incontro, dell’idea di Franco di scrivere alcune memorie personali, ho trovato la cosa molto intrigante. Perché questo è un capitolo poco esplorato di una storia recentissima, densa di cambiamenti economici, sociali e culturali. Io - ovviamente - ho rappresentato a Franco impressioni dalla parte del paese, lui mi ha riferito testimonianze dalla parte della sua famiglia e della fabbrica. Era naturale che fosse così.

Quando lo scorso autunno mi ha fatto leggere la prima stesura del suo lavoro, sono rimasto perplesso. Storo non era mai citato. La scena si svolgeva in un paese anonimo: “Un paese antico, e uguale da secoli, che giaceva come rattrappito sotto alte muraglie di roccia, basamento di una montagna dall’apparenza ostile, se pur bella di forme, che pareva sbarrare la valle a chi venisse dalla pianura”. Sono righe di poesia, dense di significati: un uguale da secoli... rattrappito sotto alte muraglie di roccia... una montagna dall’apparenza ostile, che pareva sbarrare la valle a chi venisse dalla pianura.

E lo scritto non nominava il signor Emilio Miglio, padre di Franco, scappato dai disordini della Padana per trapiantare a Storo un’esperienza industriale che avrebbe inaugurato per la valle del Chiese il progressivo passaggio da un’economia prevalentemente agricolo-pastorale a una prevalentemente industriale-artigianale.

Lo stesso Franco diventava Nino, e i suoi amici di gioventù non erano quelli che mi aspettavo: l’Osvaldo dal Bepìm, il Salvatore Panina, l’Erminio “scarpolì”, il Firmo, il Tranquillo de Bianco. Anonimato totale, ma con personaggi e luoghi facilmente identificabili almeno per chi è di Storo e ha vissuto quelle stagioni.

Alla prima lettura mi è sembrato che questa forzatura dell’anonimato non funzionasse: che fosse troppo scoperta per gli storesi e di nessun aiuto per chi non era di Storo, e che non fosse per niente vantaggiosa sul piano letterario. L’ho fatto presente all’Autore, ma Franco è rimasto saldo nel suo disegno, anche se si è accorto che io avevo scoperto chi stava dietro l’Orlando, dietro il Fino, dietro il Sisinio, dietro il “calzolaio la cui bottega era il ritrovo degli sciatori”, e avevo identificato la “valle di sopra” nella valle di Ledro dove la Sapes, dopo i primi ampliamenti della sede madre di Storo, aprì un altro stabilimento.

Poi, col passare dei giorni, ho apprezzato la scelta di Franco ed ho capito che in questo modo il libro non era più soltanto la storia di Storo, ma valeva come paradigma per tantissimi paesi delle valli alpine che soltanto dopo la metà del Novecento hanno conosciuto il passaggio a un’economia industriale-artigianale e dei servizi. Il libro valeva per Condino, dove la fabbrica è stata prima la Rivadossi e poi la Cartiera. Valeva per altri paesi della Valle del Chiese, dove il primo impulso al cambiamento è venuto dall’avvio dei “grandi lavori” delle centrali idroelettriche.

Il libro assumeva quindi dimensioni trasversali, non veniva rinchiuso all’ombra di un solo campanile, non era “strapaese”. Il racconto invitava a riflettere che cosa è avvenuto nelle nostre teste - e che cosa è capitato al nostro territorio - quando i contadini si sono improvvisati operai e muratori, quando hanno cominciato a lavorare a un tornio o a una rettifica, quando sono aumentati gli autotrasportatori, quando sono entrate in fabbrica anche molte donne, non più costrette a scendere a Milano a fare le “serve” per farsi la dote. Quando insomma la manodopera è diventata dipendente, trovando ancora - all’inizio - il tempo di dedicarsi alle occupazioni del passato, ma poi trascurando progressivamente la campagna e la montagna. Molti all’inizio, prima e dopo le otto ore in fabbrica ne facevano quasi altrettanto in campagna o nella stalla, e se da qualche anno l’agricoltura segna una ripresa è perché quei primi operai hanno il tempo libero dei pensionati.

A partire dagli anni ’50, l’improvvisa disponibilità di denaro circolante ha favorito lo sviluppo edilizio, con tante nuove abitazioni disposte attorno al centro storico, nel quale sono aumentati gli edifici disabitati. Sono apparse le prime macchine per lavorare i campi, le prime automobili, così che sono aumentati anche i viaggi fuori paese, limitati in precedenza a rare visite all’ospedale o al servizio militare. Si è entrati nella società dei consumi. Ci sono state più trasformazioni economiche e sociali nel trentennio tra il 1950 e 80 che nei precedenti duemila anni.

La vita del paese prima ruotava attorno alla chiesa, all’oratorio, ai caseifici turnari, ai minuscoli laboratori di piccoli artigiani, al negozio d’alimentari - la “botéga” -, al mulino, alle stalle, alle malghe, al capraio che da maggio a novembre, ogni mattina, percorreva le vie del paese per raccogliere il gregge. Adesso era diventata più importante e centrale la fabbrica.

In questa trasformazione si è perso molto. Si è persa tanta cultura materiale legata all’agricoltura di una volta, si sono abbandonati attrezzi antichi, si sono perse tante parole e modi di dire del dialetto. Hanno perso valore il vicinato, la contrada, che prima era un po’ la famiglia allargata.

Franco ha scritto una pagina importante di storia locale - e lo ha fatto in forma letteraria, il che gli consente di andare oltre la vicenda di un paese. Fare storia locale non dovrebbe mai ridursi a raccontare la storia di un paese, a fare la storia del selciato di ogni paese, ma nel fare questo andrebbero messe in evidenza le ricorrenze riscontrabili nelle comunità vicine, le cause e le conseguenze degli eventi, che si svolsero con analogie su un territorio più ampio di quello di un singolo paese.

Rileggendo il libro mi sono venuti in mente altri periodi della nostra storia che hanno radicalmente trasformato le cose: ho pensato alla seconda metà del ‘400 e alla prima del ‘500, quando la popolazione in un secolo è triplicata e, di conseguenza, si sono dissodati e bonificati terreni incolti, alcuni terreni comuni sono stati assegnati ai privati per una coltivazione intensiva, si è vietato di vendere case e terreni ai “forèsti”, è iniziata l’emigrazione verso Venezia, si sono ricostruite e ampliate le chiese. Questo fenomeno è stato comune a tutta la Valle del Chiese e, per gran parte, a tutto l’arco alpino.

Ho pensato anche alla grande emigrazione oltreoceano di fine ‘800 e inizi del ‘900. Questo è un fenomeno abbastanza noto a Storo, ma anch’esso è ugualmente comune ai paesi vicini.

Queste tappe della nostra storia - incremento demografico del ‘400-500, l’emigrazione, il passaggio dalla campagna alla fabbrica - hanno prodotto esperienze che hanno generato il nostro presente, hanno plasmato il nostro carattere, le nostre aperture e le nostre testardaggini. Hanno introdotto nel nostro sangue modi di vedere, forme e simboli, archetipi che costituiscono il nostro “dna” attuale, il nostro inconscio collettivo.

Franco Miglio ci consegna una testimonianza sul più recente di questi tre momenti. Il suo libro è destinato soprattutto a chi ha vissuto soltanto la modernità, ai giovani di oggi che non sanno immaginare quei cambiamenti. Ma - lo ripeto - non solo ai giovani di Storo.