Il confine del Caffaro

Dal 1918 il confine del Caffaro è comunale e provinciale: divide i territori delle Valli Giudicarie trentine da quelli della Valle Sabbia bresciana, in particolare dei Comuni di Bondone e Storo (provincia di Trento) da quelli di Bagolino e Anfo (provincia di Brescia). Andando da est a ovest, il confine scende dalle montagne della Val Vestino alla parte settentrionale del lago d’Idro, taglia l’angolo nord-est del lago, risale per breve tratto il corso del fiume Chiese, attraversa la piana alluvionale del Pian d’Oneda fino allo storico ponte sul Caffaro, risale quindi il versante occidentale seguendo dapprima il corso del medesimo fiume Caffaro e poi quello del torrente Riccomassimo.

La linea divisoria non seguì sempre questo percorso ed ebbe significato e rilevanza diversi: fu confine di stato dell’Impero d’Austria col Regno d’Italia (1859-1918) e, prima ancora, col Regno Lombardo-Veneto (1814-1859), quindi, andando più su nei secoli, tra la contea dei Lodron, feudatari del principe vescovo di Trento, e la Repubblica di Venezia (dal 1428 all’epoca napoleonica), in precedenza con la signoria dei Visconti e il ducato di Milano.

 

Il confine antico

 

Per non trovare il confine al Caffaro occorre risalire ai tempi dell’occupazione romana, quando tutto il bacino idrografico del Chiese apparteneva al municipio di Brescia (tribù Fabia) assieme al resto delle attuali Giudicarie e al Basso Sarca con Riva, Arco e la Val di Ledro. Il legame politico-amministrativo con Brescia durerà oltre 500 anni, fino a quando il ducato longobardo di Trento assorbì la Judicaria Summa Laganensis, che comprendeva anche il territorio di Bagolino e la Val Vestino. La zona del lago d’Idro divenne così terra di confine.

Nel 1004 l’imperatore Enrico II istituì il principato vescovile di Trento. Il primo documento ufficiale di istituzione risale tuttavia al 1027, quando l’imperatore Corrado II nominò principe del territorio tridentino il vescovo Udalrico II. Ciò avvenne per calcoli politici: l’imperatore voleva assicurarsi la fedeltà dei sovrani di un’importante terra di collegamento tra la Germania e l’Italia.

Un documento del 1086 sembra confermare che il confine fra i territori di Brescia e Trento fosse allora più a sud di quello provinciale attuale. L’atto tratta dell’affitto a persone di Anfo di certi pascoli presso il Caffaro e del diritto di pesca sul lago da parte dei «vicini» di Lodrone e altre «ville». Nel definire la concessione si nominano un «castrum de summo lacu» (che sorgeva probabilmente presso l’attuale chiesetta di Sant’Antonio prospiciente il lago d’Idro) e il rio Perone («Rivo Perono», oggi Reparù).

Alcuni decenni prima, stando alla tradizione e al frammento di un incerto documento, gli uomini a nord del lago avevano chiesto ai benedettini di San Pietro in Monte presso Brescia di fondare un monastero dedicato all’apostolo S. Giacomo Maggiore in località Caselle sulla sponda del lago. I laboriosi monaci bonificarono la zona acquitrinosa attorno alle foci del Chiese e del Caffaro, scavando canali e piantando ontani, notorie piante idrovore, così che il dialettale «onés» o «onìs» diede il nome a tutta la piana (Pian d’Oneda).

La posizione del confine antico si intrecciò con le sorti della signoria dei Lodron, feudatari trentini. Il loro dominio comprese da sempre anche la Val Vestino, che rimarrà trentina fino al 1934 (per la giurisdizione ecclesiastica fino al 1964). E ab immemorabili questi feudatari rivendicarono con esiti mutevoli anche il territorio di Bagolino, che fu prima feudo dei signori bresciani de Salis e che da questi passò ai Lodron alla fine del Duecento. Nel 1312 i bagolinesi si ribellarono contro i nuovi signori. Nel 1354 tutta la Valle Sabbia venne assegnata a Barnabò Visconti. L’anno dopo i benedettini, attori della bonifica del Pian d’Oneda, affittarono a Bagolino la loro campagna.

Nel 1537 Albrigino Lodron fece deviare verso sud il corso del Caffaro, che faceva da confine, in modo da allargare la sua proprietà. I magistrati di Brescia fecero intervenire Barnabò Visconti, che nel 1358 obbligò il Lodron a rispettare il precedente confine segnato dal fiume. Nel 1378 i Lodron chiesero invano al Visconti la signoria di Bagolino e il riconoscimento della pertinenza di questa terra al «districtus Tridenti».

 

Battaglie attorno al confine

 

I primi decenni del secolo XV furono segnati da guerre volte ad instaurare il predominio di uno dei cinque maggiori stati italiani (Milano, Venezia, Firenze, stato pontificio, Napoli). Il primo periodo di queste lotte si concluse con le due paci di Ferrara del 1428 e 1433, che attribuirono a Venezia il possesso di Brescia e Bergamo.

La guerra tra Venezia e Milano riesplose nel 1438 e interessò anche la zona di confine del lago d’Idro. Le truppe veneziane erano comandate dal Gattamelata e da Paride Lodron, quelle milanesi dal Piccinino. Il vescovo Trento e i conti d’Arco si appoggiarono al conte del Tirolo e si trovarono di fatto schierati con Milano.

Per la zona che qui interessa vanno ricordati soprattutto i fatti del biennio 1438-39. Il Senato Veneto ordinò al Gattamelata, che era a Brescia, di andare in aiuto a Verona che stava per essere assediata, ma le truppe del Piccinino occupavano il territorio a sud del Garda. Il Gattamelata ideò allora una strada alternativa. A marce forzate, accompagnato dal Lodron, entrò dalla Valle Sabbia nelle Giudicarie, superò il passo del Durone, scese a Riva e Arco, raggiunse Mori e proseguì lungo l’Adige, arrivando il quinto giorno a Verona con 3.000 cavalli e 2.000 fanti.

Paride Lodron ritornò subito nella sua roccaforte di Castel Romano a preparare la difesa dal contrattacco dei milanesi. La battaglia più cruenta si combatté attorno al castello il 22 gennaio 1439. Paride non si arrese. Il Piccinino stesso avanzò allora dalla Valle Sabbia concedendo piena libertà di saccheggio ai soldati. La sua artiglieria, superato il confine, batté per 15 giorni Castel Lodrone che capitolò; passò quindi a Castel Romano, ma la durezza dell’inverno, il valore della guarnigione e la mancanza di viveri lo costrinsero a togliere l’assedio.

I veneti approfittarono della situazione favorevole per far arrivare i soccorsi a Brescia via fiume Adige e lago di Garda. Salparono da Venezia 25 grosse barche e 6 galee che risalirono l’Adige; a Mori furono poste su «strasciche» e condotte fino a Torbole, dove, cariche di viveri, fecero vela verso sud, ma al largo di Desenzano dovettero affrontare i navigli milanesi ed ebbero la peggio. Solo due galee riuscirono a riparare nell’insenatura del Ponale, dove si formò un convoglio di fanti e cavalieri che attraverso la Val di Ledro trasportarono le vettovaglie in Valle del Chiese e poi, di nuovo con l’aiuto di Paride Lodron, raggiunsero Brescia superando il passo di Maniva e percorrendo la Val Trompia, scansando così le milizie milanesi della Valle Sabbia.

L’11 aprile 1441 il doge veneziano Francesco Foscari concesse ai fratelli Giorgio e Pietro Lodron le ricompense pattuite col padre Paride, morto qualche mese prima: si trattava di Bagolino e di possedimenti bresciani a Concesio e Muslone sul Garda e del castello di Cimbergo. I due Lodron giurarono fedeltà e vassallaggio a Venezia, sempre riservato tuttavia il giuramento verso il principe vescovo di Trento e il duca del Tirolo.

L’investitura veneziana di Bagolino avvenne «cum onere et honore», concedendo cioè i benefici collegati alla giurisdizione feudale (con l’onore) nel rispetto delle autonomie che la comunità aveva precedentemente ottenuto da Brescia e da Milano (con l’onere). L’ambivalente condizione alimentò la secolare vertenza per la proprietà del Pian d’Oneda e il confine fra Trento e Venezia.

Dopo le concessioni del doge, i fratelli Lodron salirono ripetutamente a Bagolino a chiedere le prestazioni feudali dovute dalla comunità, ma esclusero ogni loro ingerenza nell’amministrazione della giustizia. I bagolinesi, volendo evitare una rottura con Venezia, accettarono un accomodamento che li impegnava a pagare un tributo annuale.

L’11 settembre 1451 la comunità di Bagolino acquistò dal monastero di San Pietro in Monte di Brescia il terreno che circondava la chiesetta di S. Giacomo in Caselle, a due passi dal contestato Pian d’Oneda. La compravendita inasprì il dissidio coi Lodron (proprio l’anno dopo essi vennero nominati conti imperiali). Il conflitto per il confine riesplose nel 1474, quando i conti tentarono nuovamente di deviare il corso del Caffaro.

Le guerre tra gli stati italiani si conclusero con la pace di Lodi del 1454: Francesco Sforza fu riconosciuto duca di Milano, Venezia vide riconosciuta l’estensione del suo territorio fino all’Adda, al Caffaro, a Riva del Garda e Rovereto.

Tra il 1450 e il 1490 Venezia edificò la Rocca d’Anfo con lo scopo di difendere il confine con il principato di Trento e l’Impero. Il comando militare della struttura era affidato ad un patrizio con il titolo di provveditore, alle cui dipendenze vi erano un capitano, una trentina di soldati e qualche bombardiere. Il complesso difensivo sarà ammodernato e ampliato in epoca napoleonica, quando la strada per Trento sarà protetta da fossati e resa transitabile da ponti levatoi.

Nei primi anni del Cinquecento la Rocca fu un baluardo contro i Lodron. Questi, durante la guerra Veneto-tirolese del 1487, avevano perseguito il progetto ambizioso di crearsi una signoria familiare, collegata a Venezia, che comprendesse le quattro pievi ulteriori delle Giudicarie (Condino, Bono, Tione e Rendena), di cui erano capitani vescovili, i territori dei d’Arco, nemici di Venezia, quelli ricevuti nel 1441 nel Bresciano e le acquisizioni della Val Lagarina, dove erano arrivati nel 1456. Se il progetto si fosse realizzato, la successiva storia del confine del Caffaro sarebbe corsa lungo binari del tutto diversi da quelli che in effetti seguì. E diverso sarebbe stato anche lo sviluppo della famiglia Lodron, che, visto il fallimento del suo disegno, passò gradualmente al servizio dell’Impero.

Attorno alla zona di confine del Caffaro, in particolare alla Rocca d’Anfo, si svolsero alcune vicende degli ultimi mesi della guerra del 1508-16 dell’imperatore Massimiliano contro Venezia. Il 26 dicembre 1515 l’imperatore scrisse al vescovo di Trento Bernardo Cles, suo consigliere, di aver appreso che gli imperiali avevano occupato la Rocca e altri due castelli e gli ordinò quindi di distruggerli per assicurare la via verso Brescia per il passaggio delle vettovaglie. Il provveditore si arrese tuttavia prima ancora di essere attaccato (per questo sarà in seguito condotto a Venezia e decapitato in piazza San Marco).

Brescia, difesa dagli spagnoli e dagli imperiali, fu stretta d’assedio dalle truppe francesi e veneziane, mentre il territorio tra il Caffaro e la Val Vestino fu teatro di ripetute scorribande. Il 25 gennaio 1516 gli imperiali tentarono di forzare il blocco di Rocca d’Anfo per far passare una cospicua somma di denaro diretta a Brescia. Nello contro caddero alcuni capitani; Ludovico Lodron e Gerardo d’Arco furono fatti prigionieri. Nei giorni successivi le truppe veneziane saccheggiarono i paesi a nord del confine: «Li nostri hanno brusato tutte quelle valade de Stor e tutto Lodron, talmente che non hanno lassato pur una casa... sono corsi sopra Lodron, et hanno preso alcuni bestiami et sachizato quanto hanno potuto, ita che tutto el paese fino a Trento de i nimici è in grande paura».

Il trattato di Noyon del 13 agosto del 1516 riaffermò il potere di Venezia sul Bresciano e riconobbe il possesso francese sul Milanese; l’imperatore dovette rinunciare a tutti i territori tolti a Venezia durante la guerra; la linea del Caffaro fu confermata confine tra Venezia e l’Impero.

Dieci anni dopo, nell’autunno del 1526, le difese della Rocca d’Anfo furono aggirate dai lanzichenecchi di Georg Frundsberg. Prima di intraprendere la spedizione in Italia, egli era stato costretto, per raccogliere il denaro necessario a pagare il soldo ai mercenari, a ipotecare la sua signoria di Mindelheim (Svevia bavarese) e i suoi castelli in Tirolo e a impegnare persino l’argenteria e i gioielli della moglie Anna Lodron.

Attraversando il Tirolo, la truppa raccolta si ingrossò; dopo l’ultima rassegna di Trento, dove si contarono 35 drappelli, 40 capitani e 10.650 uomini, i mercenari presero la via delle Giudicarie. Arrivarono al confine del Caffaro il 13 e 14 novembre.

Il Frundsberg, sicuro che il capitano della Rocca d’Anfo, definita dal cronista Adam Reissner «chiusa delle nebbie», stesse spiando le sue mosse, fece preparare i gabbioni e le macchine d’assedio come se volesse proseguire lungo la sponda occidentale del lago d’Idro e attaccare la roccaforte. Il giorno 15, per sviare l’attenzione del nemico, fece comunicare ai consoli di Gargnano che la truppa sarebbe arrivata sul Garda attraverso la Val Vestino; li pregò perciò di «far pane più che potete, che vi sarà pagato ogni cosa» e li invitò a comportarsi da amici.

Invece, il giorno 16, il Frundsberg consegnò a ogni soldato i viveri per tre giorni e fece riprendere il cammino, salendo sulle montagne a est del lago d’Idro. L’esercito superò i 1.328 m. del valico di Bocca Cocca, avendo a sinistra il monte Cingla e a destra il monte Stino. I soldati salirono senza cavalli, in fila indiana, come camosci, scrive il cronista. Quando scesero a Zumiè, Vico e Viè, tre villaggi che formavano la comunità di Ha o Hano, oggi Capovalle, all’inizio della Val Vestino, i contadini fuggirono atterriti assieme ai pochi veneti che presidiavano la zona.

Da Capovalle, attraverso il passo della Fobbia (m. 1.090), i mercenari raggiunsero Terra di Cazi, oggi Treviso Bresciano. Dopo aver saccheggiato e bruciato il paese, scesero in Valle Sabbia. Il giorno 19 arrivarono a Gavardo, dove tolsero ai veneziani 8.000 capi di bestiame e 800 botti di vino di uva schiava («Farnatzer Wein»), che ancora quella sera bevvero fino ad ubriacarsi. Poi entrarono nella Pianura Padana. L’anno seguente perpetrarono il Sacco di Roma.

 

Dazi e contrabbandi

 

Facciamo un piccolo passo indietro per parlare del dazio o «muta» di Lodrone. Per molti anni i suoi proventi furono divisi tra i conti e le comunità di Storo e Condino, ma la dogana era collocata in un luogo di diretta giurisdizione dei signori, presso l’attuale palazzo Bavaria, che a quel tempo era appunto detto palazzo della Muta. Qui transitavano le merci che dalla valle scendevano verso le terre bresciane, e quelle, indispensabili e abbondanti, che la valle faceva arrivare dai territori governati da Venezia. Anche le mandrie che dalla Valle Sabbia salivano agli alpeggi trentini attraversavano il medesimo presidio. In tal modo i feudatari controllavano la vita economica del territorio. Nacquero perciò delle controversie che le comunità cercarono di appianare rivolgendosi al principe vescovo.

Così accadde ad esempio nell’estate del 1462, quando ben 120 delegati di Storo e Condino andarono a Trento ed esposero al vescovo Giorgio Hack una petizione contro Pietro Lodron e i suoi nipoti Francesco, Paride e Bernardino: da qualche tempo - dissero - i conti esigevano dazi nuovi o maggiori sulle merci in entrata e in uscita, come sale, formaggio, vino, legname e ferro. In passato - continuarono - le due comunità dovevano concorrere soltanto alla manutenzione del ponte sul Caffaro e pagare dazi contenuti, usando moneta trentina, mentre ora i Lodron chiedevano moneta bresciana ed esigevano il dazio anche per le merci che arrivavano al porto «la Camerella» sulla sponda nord-est del lago d’Idro.

Dopo aver sentito anche il conte Pietro, il principe ordinò che i sudditi di Storo e Condino pagassero senza alcuno sconto le decime dovute a Pietro e ai suoi nipoti, come avevano sempre fatto seguendo un’antica e lodevole consuetudine. Per il dazio, invece, ingiunse che in futuro fosse regolato secondo le richieste di Storo e Condino.

La sentenza rinforzò la parte comunale, ma nella sua applicazione lasciò adito ad una quantità di contestazioni e creò una tale tensione di rapporti che dovettero intervenire ripetutamente il duca del Tirolo, il vescovo di Trento e il doge di Venezia. I rettori veneti di Brescia arrivarono addirittura a bandire gli uomini di Storo e Condino dal territorio della Repubblica. L’interdetto fu annullato nel 1463 dopo un nuovo intervento del doge.

Il 4 ottobre 1488 Venezia premiò alcune comunità delle Giudicarie con due concessioni: libero importo di granaglie dal territorio veneziano ed esenzione dai dazi per le mandrie con concessione di lasciapassare ai pastori. Furono destinatarie del privilegio le comunità della Pieve di Bono, Cimego, Castello, Bondo e Breguzzo. In seguito a ciò, Storo e Condino incalzarono i Lodron perché li aiutassero ad ottenere da Venezia gli stessi vantaggi concessi ai paesi vicini.

Sopravvisse tuttavia il contrabbando che seguì soprattutto il pericoloso sentiero a picco sul lago che da Vesta (Idro) raggiungeva Baitoni, percorso che ancora oggi porta il nome di Sentiero dei contrabbandieri.

Sul versante opposto della valle si sviluppò almeno per due secoli il commercio del minerale di ferro che arrivava dalla Val Trompia, attraverso i passi di Maniva e della Berga, ai forni fusori che la comunità di Bagolino aveva nella Valle del Caffaro e a quelli dei Lodron che stavano dietro il palazzo del Caffaro. A metà del Cinquecento, su richiesta di Bagolino, Venezia bloccò le forniture per Lodrone. Sigismondo Lodron aprì allora una «ferriera» ad Anfo, fece costruire una strada che da questo paese arrivava a Collio di Val Trompia e fece lavorare un grosso barcone sul lago d’Idro per il trasporto del carbone. Il dissidio per i forni si placò con la morte dell’intraprendente conte Sigismondo nel 1568.

Continuò invece l’attività di fluitazione del legname sul Chiese e nel lago d’Idro, della quale abbiamo la prima notizia in un documento del 1405 e che proseguì fino ai primi decenni dell’Ottocento. I commercianti lombardi facevano abbattere grandi quantità di alberi nelle rigogliose foreste della Valle di Daone, ne accatastavano i tronchi lungo le rive del fiume e, quando le acque si gonfiavano per le abbondanti piogge, approfittavano della piena e li gettavano nell’alveo per giorni e notti. Precise disposizioni del vescovo di Trento fissavano che ogni condotta o «menata» o «cacciata» non superasse le 500 «bóre», perché le acque impetuose, miste a legname e detriti d’ogni genere, ostruivano il regolare deflusso della corrente, danneggiavano spesso le canalizzazioni dei mulini e delle fucine e uscivano dai fragili argini seminando rovina nei terreni pubblici e privati.

 

Da Venezia alla Grande Guerra

 

Il confine del Caffaro fu violato dall’esercito francese del Vendôme nel 1702, durante il primo periodo della guerra di successione spagnola, quando furono coinvolti anche il territorio e gli uomini della Valle Sabbia e delle Giudicarie. Fu una parentesi, perché poi le cose tornarono come prima.

La controversia per i confini trovò definitiva risoluzione soltanto nel 1752 con il trattato di Rovereto fra l’Austria e la repubblica di Venezia: l’imperatrice Maria Teresa riconobbe ufficialmente a Bagolino il possesso del Pian d’Oneda, in cambio del versamento di 14.000 fiorini ai Lodron.

L’anno successivo vennero posizionati i cippi di confine in pietra con scolpiti gli stemmi dell’Impero e di Venezia. Ne sono rimasti solo due. Il più noto è a valle di Riccomassimo, contrassegnato n. 1 A 1753; ancora oggi è detto «termanù de la discordia». L’altro è a Baitoni, a sud del ristorante Miralago, 400 metri oltre la passerella sulle rocce che segue la riva del lago; è alto quasi due metri e ha scolpite su entrambe le facciate la scritta n. 6 F 1753; sui lati nord e sud ci sono due nicchie rettangolari che dovevano contenere rispettivamente lo scudo austro-ungarico con l’aquila bicipite e quello veneziano col leone di San Marco. Un altro segno di confine è scolpito lungo il Sentiero dei contrabbandieri: dopo una decina di minuti di cammino, si vede incisa nella roccia (evidenziata da un segnale turistico) la data 1753. Di qui la linea di confine proseguiva poi verso la Val Vestino, dove altri cippi, fino al numero 36, sono stati rinvenuti e intelligentemente recuperati.

Le vicende dell’epoca napoleonica con la scomparsa della repubblica di Venezia (1797), la soppressione del principato vescovile di Trento (1804), la cancellazione della distinzione tra «vicini» e «forèsti», l’abolizione della giurisdizione signorile e lo scioglimento del Sacro Romano Impero (1806), significarono per la zona a sud e nord del confine del Caffaro la perdita progressiva di un ruolo consolidato nei secoli, quello di essere terra con una forte economia di passaggio. Il governo veneto fu rimpianto per la clemente politica fiscale, la tolleranza nella cultura, la ricchezza di istituzioni assistenziali e l’umanità nell’amministrazione della giustizia. L’industria siderurgica, così fiorente ai tempi di Venezia, fu costretta a chiudere buona parte dei forni fusori, i commerci ristagnarono.

Col trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) il territorio di Brescia, compresa la valle Sabbia, fu assegnato alla Repubblica Cisalpina, poi alla Repubblica Italiana e quindi al Regno d’Italia, tutti e tre controllati dai francesi. Con Campoformio il Trentino invece passò temporaneamente sotto la diretta amministrazione dell’Austria, poi fu annesso al Regno di Baviera (1806), quindi al napoleonico Regno d’Italia (1810). Le truppe austriache rioccuparono la regione tridentina dopo la battaglia di Lipsia (18 ottobre 1813). L’appartenenza del Trentino all’Impero austriaco venne confermata dal congresso di Vienna del 1815, che assegnò la Lombardia al Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall’Impero. Questo assetto durò fino alla Seconda guerra italiana di indipendenza (1859).

La ribellione ai nuovi sovrani si accompagnò agli ideali risorgimentali. Il primo grosso movimento popolare si ebbe con l’invasione dei Corpi Franchi del 1848. Dopo l’insurrezione di Milano in marzo, un battaglione austriaco risalì in ritirata la Valle Sabbia diretto a Trento. Fu inseguito dai volontari del generale Michele Allemandi, organizzati per iniziativa dei governi provvisori di alcune città lombarde. Erano circa 5.000 uomini, il fiore e la feccia della società. Avanzarono fino a Toblino, dove vennero sconfitti, per cui ritornarono disordinatamente in Lombardia, dopo aver tentato di organizzare un’ultima resistenza al ponte di confine del Caffaro.

La Seconda guerra d’indipendenza del 1859, pur non combattuta da queste parti, ebbe per esse una rilevante conseguenza. Infatti la pace di Zurigo sancì il passaggio della Lombardia al Regno di Sardegna, che poco dopo divenne Regno d’Italia. Il confine del Caffaro divenne quindi statale in senso stretto: al di qua e al di là del ponte, chiuso da un cancello, si costruirono gli edifici italiani e austriaci che ospitarono gli uffici e il personale delle dogane, coi gabellieri che non si facevano riguardi a palpeggiare le donne trentine che, quando si recavano a pregare nella chiesa della «Madòna de l’aiüt» a Lodrone, approfittavano per acquistare buona stoffa a buon prezzo al mercato oltre il fiume, in Italia. Per sfuggire alla gabella del dazio, nascondevano la stoffa sotto le ampie gonne con innaturali fasciature del bacino. Così quel mercato divenne la «féra déla Madòna dei palpacüi».

Negli ultimi giorni di marzo del 1866, 35.000 volontari garibaldini risalirono la Valle Sabbia fino a ponte di confine. Il giorno 24 occuparono Monte Suello e Ponte Caffaro. Il giorno dopo si svolse attorno al ponte una cruenta battaglia con il noto duello tra Vinzenz Ruziczka e il volontario Giovanni Battista Cella. Giuseppe Cesare Abba ricordò l’episodio con queste parole:

«Il Cella, giovinetto tutto grazie nella sua bella divisa di carabiniere lombardo, il capitano Ruziczka formidabile per la persona e nel piglio con cui si è mosso sul ponte all’assalto. Giù per le rive fanno alle fucilate i nostri ed i suoi, distratti dallo spettacolo dei due ufficiali che menano sciabolate da bravi. Ma corre un caporale friulano in aiuto al Cella, corre su un capitano austriaco per il capitano, e altri di qua e altri di là, il gruppo cresce dalle due parti. Un cane da presa va su anche lui, e addenta. Il capitano è caduto, il Cella è caduto, stridono le baionette; poi i due sono portati di qua dal ponte, uno in trionfo, l’altro prigioniero... Non fu conteso al cane il nome di Caffaro che portò per tutto il tempo della guerra».

Nei giorni seguenti Garibaldi, pur subendo perdite più pesanti del nemico, avanzò fino ai Forti di Lardaro e a Bezzecca, ma il 9 agosto ebbe l’ordine di abbandonare il Trentino. La confusa processione di volontari delusi e di carriaggi colmi di ogni ben di Dio ripassò il confine. Un colonnello dei volontari, passando da Darzo, chiese a un contadino anziano: «Ma voi da che parte state? Eravate contenti d’essere liberati?». Il vecchio replicò: «Vede signore, qua da noi non è questione di simpatia per loro o per gli austriaci, bensì di polenta. La guerra devasta i campi, e il contadino teme sempre vedersi dattorno la sua famiglia domandargli da mangiare, ed egli non averne».

La storia del confine del Caffaro si concluse il 24 maggio 1915: l’Italia entrò in guerra al fianco della Triplice Intesa contro l’Austria e la Germania e la Valle trentina del Chiese divenne settore del fronte che andava dal Passo del Tonale al Carso. Il balzo iniziale delle truppe italiane si sviluppò senza colpo ferire, perché da qualche giorno l’esercito austriaco aveva abbandonato il confine ritirandosi verso nord, su posizioni già predisposte ad affrontare la prevista offensiva.

Al termine della lunga e sanguinosa guerra la linea del Caffaro divenne confine provinciale. Qualcosa però è rimasto nella parlata volgare, perché nei paesi trentini si dice di chi sposa una giovane di Ponte Caffaro che si è maritato con una «taliana», così come «taliana» è detta la farina di grano saraceno di questo paese che si usa per fare la «polènta taragna».

 

 

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